Più dell’80% della massa di olive che entra in frantoio per la molitura, diventa, una volta ottenuto l’olio, un rifiuto. Un punto di vista che certo appartiene al passato e che non rispecchia le attuali tendenze, per cui si parla piuttosto di sottoprodotti, o co-prodotti dell’estrazione meccanica, il cui recupero non ha solo un valore di tutela ambientale, ma anche economico.
L’idea di Giovanni Cassese, proprietario dell’azienda Frantoio Oleario Cassese Domenico di Villa Castelli (Br), è che proprio quella grande percentuale di biomassa scartata dalle olive non possa andare sprecata e debba essere valorizzata dallo stesso frantoio che la produce. È seguendo questa linea che il suo frantoio è stato profondamente rinnovato, passando tra l’altro da una capacità produttiva di 4 t/ora nel 2008 alle 10 t/ora di oggi: attualmente lavora mediamente 7500 t di olive all’anno di cui 1000 provenienti dall’oliveto aziendale. L’aumento della capacità produttiva non basta però garantire un bilancio economico sempre positivo. «A causa della riduzione di olive disponibili – afferma Cassese – dovuta alle recenti annate di bassa produzione, alla Xylella, ma anche per la sempre più frequente “esportazione” delle olive pugliesi verso altre regioni italiane, ci troviamo nella condizione in cui per continuare a fare economia bisogna anche pensare di ottimizzare tutto il processo e rendere efficiente l’uso delle risorse che utilizziamo, ma soprattutto dobbiamo valorizzare quello che produciamo, inclusi gli scarti di lavorazione».
Un nuovo sottoprodotto
Chiave di volta per la trasformazione è stata l’adozione della tecnologia Dmf, ovvero degli estrattori centrifughi prodotti da Pieralisi con i quali l’azienda ha sostituito il tradizionale
sistema a tre fasi. «Il vantaggio più grande dell’introduzione del Dmf è stato l’azzeramento dell’uso di acqua di diluzione per il processo estrattivo, da cui è derivato la totale assenza di acque di vegetazione da gestire». L’estrattore produce infatti una sansa vergine disidratata e un secondo sottoprodotto, denominato “paté”, costituito da parte dalla polpa e dall’umidità dell’oliva senza tracce di nocciolino (lignina). «All’inizio della nostra esperienza con questa tecnologia e con la gestione di questo sottoprodotto, il paté, abbiamo inizialmente pensato che avremmo avuto bisogno di un terzo soggetto che si occupasse di ritirarlo e processarlo, al pari della sansa. Durante la prima campagna di raccolta abbiamo iniziato ad accumulare quantità crescenti di paté in azienda, e dopo qualche mese osservato che il paté andava incontro a processi fermentativi».
«Valutando che questo materiale potesse costituire una risorsa - prosegue Cassese - abbiamo deciso di gestirla direttamente in azienda, e stravolto il piano aziendale installando delle vasche di raccolta del paté e un digestore, che da solo occupa 200 m2. Il digestore che abbiamo installato ha una conformazione che lo rende molto efficiente nell’utilizzare materiale con sostanza secca intono al 25-28%». Con l’introduzione in azienda di un sistema di gestione - e digestione - dei reflui, il ciclo produttivo è diventato quasi un ciclo chiuso. Non c’è apporto di sostanze per l’estrazione dell’olio, in quanto il processo non richiede l’apporto di acqua e gli scarti di produzione della frangitura, ad eccezione della sansa e di parte del nocciolino che vengono in parte convogliati ad un sansificio esterno o venduti come biomassa da combustione. L’adozione della digestione anaerobica per la produzione del biogas è stata unicamente pensata ed adottata esclusivamente per il paté, in quanto sia per la sansa che per il nocciolino esiste uno sbocco commerciale che ha un valore ben definito e soprattutto come dimostrano le ultime campagne olearie i due sottoprodotti hanno avuto una quotazione sempre al rialzo.
L’impianto di produzione del biogas
«I digestori per la produzione di biogas – spiega Cassese - hanno una forma che ricorda le gramole utilizzate in frantoio, quindi perfettamente in grado di lavorare e mescolare efficientemente il paté. Fino alla nostra esperienza non è stato mai possibile pensare di alimentare al 100% un impianto a biogas con i soli scarti derivanti dalla lavorazione delle olive: il paté conserva una parte considerevole di polifenoli, a causa dei quali non lo si considerava un sottoprodotto ideale alla digestione anaerobica. In realtà la presenza dei polifenoli ci permette di bloccare tutte quelle naturali fermentazioni aerobiche e permettono la conservazione svariati mesi senza provocare odori sgradevoli. Una volta all’interno dell’impianto a biogas, invece, data la totale assenza di ossigeno (digestione anaerobica) i polifenoli sono inerti, o meglio non comportano una inibizione del processo biologico dell’impianto. La sfida è stata dunque solo in fase di avviamento dell’impianto, dove alimentando con piccole quantità di paté, in circa una settimana la biologia dell’impianto ha selezionato e fatto riprodurre un ceppo di batteri in grado di digerire efficientemente il paté. Successivamente abbiamo anche tentato di far lavorare l’impianto con sansa bifase denocciolata, ma le piccole quantità di lignina presenti creano l’inibizione del processo, il nocciolino non costituisce un problema grave a livello biologico perché ha una pezzatura (max 2 mm) tale da essere indigeribile nei 40-50 giorni di processo, aumentando i tempi di residenza riducendo l’efficienza della digestione e logorando precocemente le componenti dell’impianto. La risultante della piccola sperimentazione con la sansa bifase è che non era idonea a essere utilizzata al 100% in un impianto a biogas, almeno utilizzando la nostra tipologia di impianto, inoltre il rendimento della stessa è di molto inferiore a quello del paté».
Energia elettrica e termica
Il paté di olive viene infatti utilizzato per la produzione di biogas, che serve direttamente a scaldare il frantoio e tutta la struttura, riducendo a zero i costi della biomassa utilizzata per i riscaldamenti, ma soprattutto viene utilizzato per generare energia elettrica, con un bilancio che eccede di molto le necessità del frantoio e che quindi consente all’azienda un ricavo economico dalla fornitura di energia elettrica.
Cassese fornisce alcuni numeri: «In media il nostro frantoio annualmente consuma 250,000kw comprensivi di tutte le utenze aziendali. L’impianto biogas, al netto dei suoi autoconsumi, ha prodotto nel primo anno di lavoro oltre 770,000kwh elettrici: inoltre sfruttando la cogenerazione il bilancio arriva ad oltre 1,000,000kwh termici». L’energia elettrica che eccede gli autoconsumi corrisponde a quella dei consumi di un centinaio di famiglie. La produzione di biogas deriva esclusivamente dall’utilizzo della particolare sansa umida generata dall’estrazione Dmf: «Dall’esperienza maturata dopo oltre un anno di funzionamento dell’impianto, il paté di oliva si è dimostrato la migliore biomassa per alimentare un impianto a biogas al 100%. Il paté con sostanza secca intorno al 25% all’interno della nostra tipologia di impianto “tipo gramola” (chiamato più comunemente flusso a pistone) ci consente tra l’atro di evitare l’apporto idrico al digestore, contrariamente a quanto viene fatto in altri impianti di biogas, dove si aggiunge acqua o comunque una matrice molto liquida in quantità pari al 10-15% della biomassa». In termini di resa in biogas, il paté sembra poter competere con altri tipi di materiale normalmente utilizzati nei biodigestori, sottolinea Cassese «Ogni metro cubo di paté sviluppa almeno 160 metri cubi di metano con, percentuali di purezza intorno al 65%. Questo significa, che, ipoteticamente, 100kg di paté sviluppano circa 30kw elettrici e circa 40kw termici».
Anche il digestato viene riutilizzato
Ma il ciclo del paté non finisce nell’impianto di produzione del Biogas. «Dopo circa 50giorni di digestione otteniamo il digestato, che rappresenta in peso il 75% di media della biomassa in ingresso (il calo è dovuto al fatto che circa il 25% della biomassa è stata trasformata in biogas). Il digestato ha un buon contenuto di elementi minerali come azoto calcio e fosforo, ma soprattutto ha un elevato contenuto di potassio: Cassese ha ridotto la concimazione chimica e utilizza il digestato nell’oliveto aziendale (di circa 100 ha): «Oltre a fornire un importante apporto nutrizionale alle piante, avendo ancora un elevato carico batteriologico favorisce e incrementa l’attività biologica del terreno e costituisce un mix perfetto fra sostanza organica, nutrienti e carica batterica ideale per i terreni degli oliveti stremati da decenni di utilizzo intensivo e di concimazioni chimiche che hanno portato ad una sistematica e inesorabile diminuzione della sostanza organica».
L’investimento e il lavoro per mettere a punto il sistema adottato dal frantoio di Cassese non è comunque stato banale e ha richiesto non solo uno studio di quale fossero le soluzioni tecnologiche più idonee, ma anche alcuni tentativi e la risoluzione di alcuni problemi in corso d’opera. «Siamo arrivati a ottenere dei buoni risultati con il paté, ma è un materiale non così semplice da gestire - sottolinea l’imprenditore pugliese - a partire da una certa variabilità nella sua composizione dovuta anche al periodo di lavorazione delle olive. Inoltre, il suo contenuto di materia grassa, pur molto ridotto, ha creato inizialmente alcuni problemi per la produzione di schiuma all’interno dell’impianto.
Un primo bilancio
Un’esperienza certamente positiva quella dell’azienda pugliese, in cui si pensa agli ulteriori miglioramenti da apportare. «Per noi il percorso è cominciato con l’adozione della tecnologia Dmf e siamo arrivati all’effettiva utilizzo di tutti i sottoprodotti, su grande scala. Le nostre prospettive sono quelle di continuare anche a sperimentare – sottolinea Cassese - ad esempio utilizzando il biodigestore anche per altri tipo di sostanze, come ad esempio le foglie, opportunamente triturate e insilate. Il prossimo obbiettivo è utilizzare l’energia termica dell’impianto anche durante l’estate con la tri-generazione, ovvero la generazione di potere frigorifero per condizionatori per il mantenimento costante delle temperature all’intero dei locali di stoccaggio olio».
Esempi come quello dell’azienda pugliese suggeriscono che l’adozione di sistemi di produzione di biogas posso effettivamente rappresentare una soluzione economica e ambientale valida per molte aziende olearie. «Il nostro primo obiettivo rimane sempre quello di produrre e commercializzare olio di qualità, ma penso che l’ammodernamento degli impianti di estrazione dell’olio passi dall’ottimizzazione della gestione delle risorse – conclude Cassese - per questo vedo il “Frantoio 2.0” quello in grado di eliminare sprechi e apporti dall’esterno. Alla luce dell’estate appena trascorsa si rende ancora più forte la necessità di centellinare le risorse idriche all’interno dei processi di trasformazione agroalimentari. Per la filiera olearia, le tecnologie di estrazione e di gestione e valorizzazione degli scarti ci sono. Non si può più pensare di investire sulla lavorazione trifase, ormai obsoleta: un frantoio di medie dimensioni può benissimo utilizzare e sfruttare tutti i benefici provenienti dall’utilizzo di queste nuove tecnologie».
Leggi l’articolo sulla rivista Olivo e Olio n. 5/2017