L’olivicoltura, sia essa tradizionale o intensiva, per essere sostenibile non può prescindere da una oculata gestione del suolo, tale da farne un substrato ideale per ospitare e far vivere le piante di olivo. Tale, cioè, da consentire agli apparati radicali la possibilità di esplorazione del suolo per accedere in modo equilibrato ad acqua, aria e nutrienti e da garantire la fertilità necessaria per rese produttive soddisfacenti negli anni. Della gestione sostenibile del suolo in olivicoltura ha discusso un webinar organizzato dall’Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio insieme con i gruppi di lavoro “Olivo e Olio” e “Agricoltura Biologica e Agro-ecologica” della Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana (SOI).
L’inerbimento, tecnica sostenibile per l’oliveto
Per esprimere le proprie potenzialità o addirittura migliorarle, un suolo deve essere presente fisicamente in maniera continuativa, quindi non soggetto a erosione, ha introdotto Enrico Maria Lodolini, ricercatore del CREA-OFA (Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura) di Roma.
«Per evitare l’erosione del suolo, o almeno ridurla quanto più possibile, è opportuno un approccio mirato a tutelarne e migliorarne le caratteristiche naturali, con l’introduzione dell’inerbimento e l’aumento del contenuto in sostanza organica. La pratica dell’inerbimento consente di avere una serie di vantaggi:
- la diminuzione dell’erosione;
- l’aumento del contenuto del suolo in sostanza organica;
- il miglioramento della struttura;
- la capacità di ritenzione e rilascio dei nutrienti in modo equilibrato;
- l’aumento di ritenzione idrica, di protezione da stress grazie alla funzione pacciamante del tappeto erboso, di biodiversità del suolo e di entomofauna;
- il miglioramento del controllo della flora, dei fitofagi e dei parassiti;
- l’aumento di portanza del suolo e del consumo di carburante e fitofarmaci.
L’unico svantaggio è la competizione per l’acqua e i nutrienti, ma questa può essere contenuta adottando specifici accorgimenti colturali di gestione dell’inerbimento».
Prioritario è anche il mantenimento (o addirittura l’aumento) del contenuto di sostanza organica del suolo, «che svolge una serie di funzioni molto importanti:
- garantisce la formazione di un’adeguata porosità;
- favorisce un’adeguata micro e macro-aerazione;
- ha potere chelante (trattiene gli elementi nutritivi);
- permette un'ampia possibilità di scambio con gli apparati radicali grazie ad un’elevata superficie specifica;
- ha alta capacità di scambio cationico;
- può tamponare gli effetti negativi, ad esempio, della presenza di auto-residui della coltura grazie alla sua funzione allelopatica;
- ha funzione di ritenzione idrica, infatti funziona come una spugna, capace di trattenere fino a 10-15 volte il proprio peso in acqua».
Il corretto destino della sostanza organica
«La sostanza organica – ha proseguito Lodolini – va incontro a un processo di degradazione che può seguire due strade: o una mineralizzazione rapida, con la liberazione degli elementi minerali, che però devono essere prontamente utilizzati dalla pianta quando ne ha bisogno, oppure un processo di umificazione, cioè di degradazione lenta che porta alla formazione di sostanza organica stabile, l’humus. Esso, a sua volta, va incontro a un processo di lenta mineralizzazione, cioè di cessione degli elementi minerali alla pianta in modo più lento e costante nel tempo».
«La sostanza organica è come un conto in banca: da essa l’olivo può attingere al momento del bisogno di elementi nutritivi, ma occorre necessariamente rimpinguarla per non farla esaurire. Altrimenti bisognerà “inseguire” le piante apportando input minerali esterni!»
«Affinché il processo di umificazione, che porta alla formazione di sostanza organica stabile nel suolo, avvenga in modo corretto, sono necessarie tre condizioni:
- poligenicità, cioè ampia diversificazione di residui colturali e quindi di sostanza organica;
- presenza di flora saprofitica molto biodiversa che si instaurerà su tali residui e li degraderà;
- condizione di microaerobiosi del suolo, che può essere ottenuta non con lavorazioni profonde e frequenti che ossigenano eccessivamente il suolo, ma con lavorazioni minime o assicurando la presenza di apparati radicali superficiali e profondi che ne favoriscano la microssigenazione.
Così si può creare nel suolo un metabolismo che origini una umificazione corretta. Ovviamente pratiche colturali come la monocoltura, che semplifica i residui colturali, o le lavorazioni profonde, che favoriscono l’eccessiva ossigenazione del suolo, vanno nella direzione opposta: ne conseguono la semplificazione della componente microbica, che si specializza su pochi residui colturali, e la mineralizzazione molto spinta dei residui colturali, quindi la perdita di sostanza organica nel tempo».
La gestione dell’inerbimento
Da questo punto di vista l’inerbimento spontaneo polifita rappresenta uno strumento importante per garantire la biodiversità dei residui colturali e per mantenere la biodiversità dei microrganismi nel suolo nell’oliveto.
«Gli inerbimenti non vanno mai lasciati a se stessi, ma gestiti – ha consigliato Lodolini –. Essi possono essere:
- spontanei totali o parziali con lavorazione nel sottofila o con rottura del cotico erboso a filari alterni;
- temporanei, cioè rotti con lavorazioni superficiali soprattutto quando la competizione per la risorsa idrica e gli elementi nutritivi è più marcata, in ambienti aridi o semiaridi o in condizioni di particolari esigenze fitosanitarie (come per il controllo della sputacchina, principale insetto vettore di Xylella fastidiosa), oppure
- permanenti, se le condizioni ambientali lo consentono.
Si può procedere a inerbimenti seminati pre-impianto, prima della messa a dimora degli olivi, per aumentare il contenuto di sostanza organica, utilizzando diversi miscugli a seconda delle condizioni pedoclimatiche e degli obiettivi che si vogliono raggiungere, ad esempio prevalenza di leguminose su graminacee o equilibrio fra le due tipologie. Oppure inerbimenti seminati su oliveti adulti, ad esempio con miscugli di leguminose perenni per “rinforzare” l’inerbimento naturale, adeguati a ogni specifica condizione pedoclimatica».
La gestione dell’inerbimento può essere effettuata con diverse strategie. «Trinciature periodiche, due-tre o più a seconda delle specifiche condizioni pedoclimatiche dell’oliveto. Oppure lo sfalcio a inizio estate o l’allettamento con roller crimper, un rullo con una sagomatura speciale che spezza il fusticino delle erbe spontanee e le alletta formando una sorta di pacciamatura naturale per contenere lo sviluppo delle infestanti. Tale pratica richiede però una specifica messa a punto per ogni condizione ambientale in modo da avere un controllo della riemergenza delle diverse specie spontanee».
«Altro aspetto su cui la ricerca sta lavorando è quello delle pacciamature vive nel sottofila, per creare una situazione di continuità su tutta la superficie del suolo dell’oliveto: alcuni interessanti risultati si possono ottenere con la semina di essenze specifiche come la cinquefoglia comune (Potentilla reptans) o la fragolina di bosco (Fragaria vesca). Quest’ultimo caso può rappresentare una fonte di reddito alternativa».
Un nuovo approccio agro-ecologico
Per migliorare ulteriormente l’efficacia dell’inerbimento, ha aggiunto Lodolini, la ricerca sta lavorando su nuovi modelli di agroforestazione (agroforestry) in olivicoltura.
«Un’interessante proposta è ad esempio quella testata pochi anni fa in Umbria, che prevede la coltivazione consociata di olivo e asparago selvatico e l’allevamento a terra del pollo rustico. I vantaggi per il suolo sono molteplici: apporto di sostanza organica diversificata, controllo dell’inerbimento, controllo dei fitofagi, poiché il pollo mangia le larve e le pupe che rimangono nel terreno durate l’inverno, abbassando la popolazione del fitofago nel tempo. Inoltre la consociazione sulla stessa superficie di suolo di due specie vegetali e di una animale consente all’agricoltore di avere tre fonti di reddito».
«Sono allo studio, quindi, nuove soluzioni che possano essere efficaci sotto i profili ambientale, agronomico ed economico. In pratica si prefigura lo spostamento dai due modelli preesistenti, l’olivicoltura industriale e l’olivicoltura di sussistenza, verso un modello di agricoltura agro-ecologica e biodiversificata, in cui sono presenti almeno due colture, fra cui l’olivo, e un allevamento. Un modello i cui indicatori di sostenibilità, ambientale, sociale ed economica, si rivelano molto positivi».
L’approccio agro-ecologico, ha concluso Lodolini, ha un altro vantaggio importante: ridurre gli input esterni e quindi la somministrazione di concimi di sintesi.
«Il costante apporto di sostanza organica di origine differenziata (residui dell’inerbimento, residui di potatura, aggiunta di ammendanti quali letame o compost, pellettati organici, sanse umide) permette di mantenere un elevato livello di fertilità del suolo e ottenere uno sviluppo più equilibrato della pianta, in maniera da arrivare a bilanci positivi dell’humus restituito rispetto all’humus mineralizzato e poter quindi ridurre al minimo la quota di elementi nutritivi da integrare con somministrazioni minerali esterne (concimazioni)».
«Anche il rinnovo del suolo in un oliveto “stanco” è possibile: oltre alla potatura di riforma per rimettere in ordine la chioma, è possibile effettuare sia lavorazioni minime, che consentano tagli verticali (ripuntatura) per favorire la microssigenazione del suolo e il rinnovo degli apparati radicali, sia l’incorporamento di sostanza organica, cioè ammendanti, letame, compost, ecc. In questo modo, operando a filari alterni ed eventualmente a filari incrociati, si arriva in pochi anni al recupero funzionale del suolo dell’intero oliveto».
La struttura, proprietà chiave della funzionalità del suolo
La proprietà chiave per garantire la funzionalità del suolo è la sua struttura, benché a volte, a torto, venga poco considerata, ha sottolineato Nadia Vignozzi, ricercatrice del CREA-AA (Agricoltura e Ambiente) di Firenze.
Numerosi sono, infatti, i suoi effetti sulla funzionalità del suolo: regola la quantità e qualità delle produzioni, cioè della biomassa ottenuta, i flussi idrici e gassosi, la biodiversità, il sequestro del carbonio.
«Nell’ottica di una intensificazione sostenibile dell’olivicoltura italiana è importante aumentare la conoscenza del suolo, della sua variabilità spaziale e delle proprietà funzionali all’incremento della quantità e della qualità delle produzioni. Purtroppo, però, l’informazione sul suolo spesso si limita ai primi 30 cm e riguarda per lo più le caratteristiche chimiche, in particolare i parametri nutrizionali. Si dà spazio agli aspetti fisici del suolo solo per quanto riguarda la tessitura, mentre la struttura viene di solito ignorata».
Invece, nella prospettiva di una gestione sostenibile del suolo, è fondamentale conoscerne sia la tessitura sia la struttura, perché entrambe queste proprietà concorrono a determinare il comportamento del suolo al variare di condizioni climatiche e sistemi di gestione.
«La tessitura, cioè la composizione del suolo in sabbia, limo e argilla, è una proprietà statica: una volta determinata non subisce grandi variazioni e permette di avere un’idea di quale possa essere, ad esempio, il comportamento idrologico del suolo».
«La struttura è, invece, una proprietà dinamica, quindi soggetta a variazioni, che influenza molti processi e condiziona lo sviluppo degli organismi viventi (piante, macro e micro-organismi): può essere definita sia come la forma, la dimensione e l’arrangiamento spaziale delle singole particelle del suolo e degli aggregati sia, dal punto di vista del sistema poroso, come la risultante della combinazione di differenti tipi di pori con le particelle solide. I processi che avvengono nel suolo sono infatti controllati dal sistema poroso, ma non tanto dalla porosità totale quanto dalla forma, dalla distribuzione dimensionale e dal grado di connessione dei pori)».
«Pertanto due terreni con la stessa tessitura possono comportarsi in modo molto diverso a seconda della loro struttura e quindi della porosità che la struttura determina. Un terreno argilloso con una buona struttura, ricca di macro e micropori ben connessi fra loro, è facilmente attraversato da aria, acqua e radici; ma, se la sua struttura è stata deteriorata, ad esempio dal compattamento, può risultare quasi impenetrabile».
Interazione fra radici dell’olivo e residui organici
Un terreno ben strutturato, ossigenato e senza ristagno idrico è ideale per ospitare l’apparato radicale dell’olivo. In tali condizioni ottimali, ha sostenuto Davide Neri, docente dell’Università Politecnica delle Marche, anche un danno da taglio viene facilmente recuperato, anzi costituisce uno stimolo a una fortissima crescita radicale.
«Il suolo per essere ospitale deve fungere da substrato ottimale non solo per le radici scheletriche e di supporto ma anche, e soprattutto, per quelle assorbenti ed esploratrici, deve permettere alle radici di esplorarlo, ramificarsi e svilupparsi, deve consentire il movimento degli ioni verso le radici, ma anche quello delle radici verso i nutrienti. Perciò è utile intervenire con un erpice discissore per arieggiare la fascia fra i 30 e i 40 cm, soprattutto negli oliveti a elevata densità, dove gli apparati radicali hanno un minor volume di terreno a loro disposizione».
Proprio negli impianti a elevata densità più facilmente gli olivi possono mostrare sintomi di “stanchezza del terreno”. «In pieno campo l’olivo in genere non manifesta tali sintomi, per l’elevata trasmigrabilità dell’apparato radicale e per gli ampi sesti di impianto, ma non per mancanza di sensibilità allelopatica. Da prove condotte presso l’Università delle Marche in serra, con piante da talea delle cultivar Arbequina e Frantoio, messe a crescere in vaso su un substrato addizionato con diverse concentrazioni di residui colturali di olivo a stretto contatto con le radici, abbiamo verificato che pure l’olivo è sensibile alle sostanze allelopatiche in cui si evolvono i residui organici, perché in tale ambiente ristretto, in cui l’azione trasmigrante veniva limitata, ha manifestato sintomi di stress allelopatico».
Indicatori di biodiversità nel suolo
Il suolo agrario è un sistema vivente non solo per le radici delle colture e delle erbe infestanti, ma anche per la presenza di un’ampia gamma di organismi animali che ne caratterizzano la biodiversità, ha affermato Sauro Simoni, ricercatore del CREA-DC (Centro di ricerca Difesa e Certificazione) di Firenze.
«Questa ampia diversità di organismi animali (acari, collemboli, ecc.) rappresenta, tramite la loro presenza o assenza, un valido indicatore della salute del suolo e della sua qualità biologica o funzionalità, cioè la capacità di sostenere la produttività delle piante e di preservare o migliorare gli equilibri ecosistemici. La valutazione della qualità biologica del suolo dell’oliveto è l’indicatore principale per comprendere se la gestione di un territorio sia sostenibile o meno».