Insidia e colpisce l’olio extra vergine di oliva sardo, benché questo sia in gran parte tutelato da marchi di qualità e certificazioni. È il Sardinian sounding, ossia lo sfruttamento commerciale del buon nome dell’olio extra vergine di oliva attraverso una iconografia ben studiata che richiama la bellezza e la distintività dell’isola, ma va a vantaggio di olio ottenuto da olive di provenienza extra regionale e persino extra italiana. Di tale reale e grave rischio per il comparto olivicolo-oleario sardo si è discusso nel corso della tavola rotonda “Sardinian sounding, sembra sardo ma non è” organizzata dalle associazioni dei consumatori aderenti al progetto “Io Consumatore Sardegna”.
Iconografia olio di oliva richiamante la Sardegna
La Sardegna, ha introdotto il vicepresidente di Associazione difesa orientamento consumatori (Adoc) Cagliari Andrea Falchi, comprende 40.000 ettari coltivati a olivo, anche in biologico, dai quali si ricavano ogni anno circa 500.000 quintali di olive, trasformate da circa 160 frantoi in 90.000 quintali di olio extra vergine di oliva (pari all’1,5% della produzione nazionale), per un fatturato annuo di circa 250 milioni annui.
«La nostra regione vanta la Dop “Sardegna”, che è riservata all’olio extra vergine di oliva estratto nelle zone della Sardegna indicate nel disciplinare di produzione e ottenuto per l’80% dalle varietà Bosana, Tonda di Cagliari, Nera (Tonda) di Villacidro, Semidana e i loro sinonimi; al restante 20% concorrono le varietà minori presenti nel territorio, che comunque non devono incidere sulle caratteristiche finali del prodotto. Occorre però tenere alta l’attenzione su un fenomeno che dagli addetti ai lavori è considerato forse anche più insidioso della contraffazione. Con il Sardinian sounding si richiama l’isola e, così, si convince il consumatore di avere a che fare con un prodotto genuinamente sardo, ma che in realtà di isolano ha poco o niente. Le materie prime non sono sarde, la qualità è modesta, il prezzo cala. E il danno si riverbera sugli autentici produttori sardi».
Pratica commerciale al limite delle liceità giuridica
Il Sardinian sounding, così come più in generale l’Italian sounding, ha chiarito il presidente di Federconsumatori Sardegna, Andrea Pusceddu, «è una pratica commerciale – scorretta ma al limite sul piano della liceità giuridica – attuata anche da aziende sarde e italiane. Queste, con richiami di immagini sulle etichette e nomenclature, convincono il consumatore di avere a che fare con un prodotto genuinamente sardo. Ma esso in realtà di isolano ha poco o niente, a partire dalle materie prime, riverberando, così, sui produttori locali, i danni maggiori. Ben altra cosa è l’olio extra vergine di oliva a Dop “Sardegna”. Il marchio Dop, riconoscimento che proviene dall’Ue, viene assegnato sulla base della tipicità delle cultivar, che in Sardegna sono uniche, delle loro caratteristiche organolettiche meritevoli di tutela, di peculiarità culturali legate al luogo di produzione. Il disciplinare della Dop indica i singoli Comuni nei quali si può produrre un olio che possa definirsi Dop. Il quale, inoltre, deve essere prodotto con almeno l’80% di olive autoctone di zone geografiche specifiche dell’isola. Il disciplinare contiene anche specifiche che impongono particolari procedure per la spremitura, fino all’indicazione della temperatura della fase di lavorazione, oltre alla percentuale di acidità».
L’acquisto sul prezzo spiana la strada
Chi acquista è chiaramente attratto in prima battuta dal prezzo, ha avvertito Michele Milizia di Casa del Consumatore. «Egli si trova davanti bottiglie proposte a pochi euro al litro e bottiglie di olio extra vergine di oliva Dop a circa 10 euro al litro. Di fronte a tale squilibrio i produttori e i distributori, se vogliono sconfiggere la concorrenza sleale, devono puntare molto sulla trasparenza, per far emergere le caratteristiche superiori dei prodotti della nostra isola». Infine Giuliano Frau, presidente regionale di Adoc, ha puntato sulla necessità di consumare olio extra vergine di oliva sardo. E ha dato un consiglio: «Un chilo di olio, che corrisponde circa a 1,2 litri, non può mai scendere sotto i 6-7 euro. Un prezzo inferiore, sulla base dei costi di produzione, significherebbe che il venditore avrebbe lavorato in perdita. Ma ciò non può accadere: se succedesse, vorrebbe dire che ha fatto ricorso ad adulterazioni o sotterfugi. Dobbiamo far arrivare questo messaggio ai consumatori, soprattutto in questo periodo contingente nel quale si tende a risparmiare su tutto».