La micropropagazione delle piante da frutto è stata accolta inizialmente con diffidenza e l’olivo non è stato risparmiato da questa sorte. Alla diffidenza verso le innovazioni si sono aggiunte altre cause, quali il timore che il normale rinvigorimento, cui tutte le specie vanno soggette in vitro, potesse causare ritardi nell’entrata in fioritura, il timore di mutazioni genetiche, la forte richiesta di piante innestate su semenzale, ritenute più adatte agli impianti in suoli sciolti e siccitosi di zone ventose, la diffusione di giudizi negativi per meri fini d’interesse commerciale a difesa della moltiplicazione tradizionale e, infine, la mancanza di campi sperimentali che avrebbero consentito di dimostrare la validità della tecnica.
I vivaisti non hanno saputo cogliere l’occasione di sfruttare questa opportunità che avrebbe consentito anche di contrastare la crisi del vivaismo olivicolo in atto da molti anni, crisi peraltro aggravata dall’annosa incertezza sulle scelte varietali per i nuovi oliveti ad alta e altissima densità, e per contrastare il flagello della Xylella. (…)
Finora l’offerta di piante di olivo da vitro è stata molto limitata; in pratica solo un laboratorio commerciale, “Vitroplant Italia”, è stato in grado di offrire una discreta quantità di piante di diverse varietà ma destinata all’esportazione.
In questo articolo si vuole fare il punto sulla qualità delle piante micropropagate per stimolazione di gemme ascellari ripercorrendo esperienze passate e recenti e ci si propone di segnalare eventuali criticità relative alla tecnica e di fornire suggerimenti per superarle. Si vuole altresì sottolineare che questa attività è supportata da istituzioni specializzate, come il CAV (Centro Attività Vivaistiche) per la fornitura di materiale iniziale, almeno per le varietà italiane, derivato da “piante madri certificate” che mette a riparo il micropropagatore da possibili errori nella scelta del materiale di partenza, evitando di utilizzare gemme da piante non sempre ben identificate e/o di rami non propriamente idonei a garantire un prodotto di qualità.
È bene ricordare che la legge obbliga i laboratori commerciali a rinnovare le colture con ritmi pressoché annuali per evitare di incorrere in problemi di stabilità genetica.
Soluzioni tecniche per produzioni su vasta scala
Alla fine degli anni 1970, i ricercatori erano convinti che la micropropagazione dell’olivo avrebbe avuto un immediato successo viste la scarsa efficienza delle tecniche di propagazione allora in atto, ma ben presto, di fronte alle numerose difficoltà incontrate, anche i più attivi ricercatori stranieri desistettero dall’impresa. Tra le tante, quella relativa alla disinfestazione degli espianti e loro ambientamento in vitro fu una delle più ardue da superare, non potendo impiegare i meristemi o apici gemmari, che perdono vitalità dopo pochi minuti dal prelievo, né tanto meno nodi di succhione e di pollone, più facile da disinfestare e da ambientare, per il rischio di produrre piante giovanili, ma soltanto nodi di ramo maturo di rami in fruttificazione. Talvolta l’innesto seriale in vivo su semenzali o gli innesti in vitro su germogli ben ambientati facilitano l’avvio delle colture.
Oltre all’uso del classico ipoclorito di sodio, da solo o in combinazione con cloruro di mercurio, il PPM (Plant Preservative Medium) usato per risciacqui o aggiunto al substrato iniziale per 2 o 3 subcolture, ne facilita la disinfestazione; l’impiego di nano-particelle di argento (L2000, NANO CIDR), ancora in fase sperimentale, sembra essere promettente. Le cultivar più difficili da ambientare in vitro potrebbero richiedere due o tre subcolture del neoformato germoglio, opportunamente cimato, attaccato all’espianto legnoso per facilitare un graduale adattamento. In caso di comparsa tardiva di batteri o funghi, durante la fase di proliferazione, si possono produrre linee sterili espiantando i meristemi o apici da questi germogli, previa loro disinfestazione in soluzione sterilizzante sottovuoto, adagiando poi i micro-espianti su cubetti (di 0,5 cm3) di substrato di proliferazione OM solido in piastre Petri o “a pozzetti multipli” (multiwells); successivamente un antibiogramma è consigliabile. Questa tecnica non solo è efficace per eliminare microrganismi di superficie, ma è stata da noi applicata con successo per l’eradicazione dei virus in tre cultivar, ovviamente aggirando la prima fase se le colture non sono presenti microrganismi di superficie.
Il risanamento è d’obbligo, pena esclusione dalla certificazione fitosanitaria, sebbene in genere i virus non provochino seri danni alla pianta, ad eccezione di alcuni e solo su alcune cultivar, come abbiamo osservato ad esempio per l’SRLV di fragola.
Substrati di proliferazione
In fase di proliferazione la dominanza apicale, più o meno accentuata in relazione alla cultivar, riduce la formazione di ‘cespi’. Per ridurla, oltre all’ormone preferito, la zeatina, vengono aggiunti altri ormoni e/o fitoregolatori: 2iP, Kinetina, GA3, BAP, BA, Thidiazuron, Metatopolin, Dikegulak o latte di cocco, in numero e quantità variabile in base alla varietà e al tempo trascorso in vitro. Tuttavia, all’aumentare del numero delle subcolture aumenta la predisposizione delle gemme basali a schiudersi e si assiste alla miniaturizzazione delle colture.
La composizione minerale e organica del substrato di proliferazione si distingue dagli altri comuni substrati, in quanto è più ricco in Ca, Mg, S, P, B, Cu e Zn, con un rapporto Ca:N di 1:11 e dalla presenza in alte concentrazioni di glutammina e di vitamine.
Per la formulazione si è fatto ricorso all’analisi degli elementi minerali nei semi, partendo dal concetto che questi sono il miglior substrato naturale per lo sviluppo del germinello. Se le ridotte dimensioni delle cellule di olivo facevano presagire una elevata richiesta di calcio, per alcuni altri elementi rivelati dalle analisi fu per noi una sorpresa. Sulla base della composizione degli elementi minerali nei semi di analisi comparative con un’altra specie e substrati, è stato formulato il substrato OM (Olive Medium), commercializzato da oltre venti anni dalla ditta Duchefa.
Questo è considerato efficace nel sostenere la crescita per un numero indefinito di subcolture per la stragrande maggioranza di varietà di olivo e anche di specie e generi affini ad esso e, sorprendentemente, anche di alcune specie ortive. Un ulteriore miglioramento è stato ottenuto con l’aggiunta di gelatina di mosto d’uva (M-Gel) che contiene fruttosio, glucosio e galattomannani insieme all’agar e con l’impiego del mannitolo, quale fonte di carbonio, al posto del saccarosio.
Per un buon successo i germogli debbono essere mantenuti costantemente rigogliosi (foto 1) con subcolture regolari mensili ed usare contenitori che permettano un buon ricambio di aria. Per allungare e predisporre meglio i germogli alla radicazione e all’ambientamento, al termine della fase di proliferazione che precede quella di radicazione, è consigliabile operare una “doppia fase” con aggiunta di uno strato di terreno di coltura di proliferazione liquido per circa 10 giorni con ulteriore aggiunta di GA3 e mannitolo, in condizioni di elevata aereazione (possibilmente anche scoperchiando i vasi, se la radicazione avverrà in vivo).
Fase di radicazione
Per la radicazione è preferibile usare l’intero germoglio invece di microtalee uni o bi-nodali, con trattamenti con acido indolbutirrico (IBA) o acido naftalene acetico (NAA), da soli o in associazione a cofattori (putrescina, captano, fenoli). Alcune cultivar richiedono una iniziale incubazione al buio continuato per 5–7 giorni; in alternativa un oscuramento del substrato (inchiostro di china, nero di seppia, Brillant Blak etc), meno indicati i carboni attivi per la nota attività di adsorbimento apolare, oppure con materiali fisici (granuli di poliestere neri in superficie e nastro adesivo nero o vernice nera all’esterno fino al livello del substrato).
La putrescina in genere migliora ed anticipa la rizogenesi in germogli invecchiati o malnutriti, sia in vitro che in vivo. Questa agisce sulla fase di induzione per opera delll’H2O2 liberata a seguito del catabolismo e della condensazione in altre poliammine (PA).
Il beneficio è stato correlato al basso contenuto endogeno di PA nei germogli a confronto con quelli di altre specie (noce e castagno), che non traggono vantaggio dal trattamento. Il doppio strato solido/liquido, se ritenuto necessario, dopo l’emergenza delle radici, realizzato con ½ OM, 4% mannitolo o saccarosio, putrescina (160 mg/L) e GA3 (5-10 mg/L), in condizione di elevata aereazione (eliminare anche il coperchio) facilita l’ambientamento.
Alla radicazione in vitro (foto 2) si ricorre per le varietà di difficile rizogenesi (ad esempio la Nocellara Etnea), per le altre è preferibile in vivo (foto 3) con trattamenti basali polverulenti con auxine ed eventuali co-fattori in essi dispersi; l’illuminazione continua può contribuire a migliorarla come dimostrato in cultivar italiane.
Radicazione con l’Agrobaterium rhizogenes " wt.
Finora la coltura in vitro è stata efficace per indurre rizogenesi anche in cultivar di olivo difficile a radicare per talea, tuttavia, non è da escludere che nella grande variabilità espressa da questa specie, non ci si possa imbattere in futuro in qualche genotipo recalcitrante anche in vitro. In tal caso si può ricorrere all’Agrobaterium rhizogenes “wild type, che induce la rizogenesi in quasi tutte le specie.
L’olivo (cv Moraiolo) e il mandorlo (cv Tuono) radicano in elevata percentuale senza auxina o al limite con sola putrescina, con abbondante numero di radici; tuttavia, l’olivo, al contrario del mandorlo, solo eccezionalmente ha differenziato radici trasformate.
Questa peculiarità potrebbe consentire di utilizzare il batterio per indurre rizogenesi senza incorrere in effetti collaterali (nanizzazione e trasmissione di giovanilità al nesto), come osservato in susino con radici tutte trasformate con l’riTDNA del batterio. In questo caso, l’olivo, oltre ad avere il vantaggio di possedere l’apparato radicale non transgenico non sarebbe nemmeno considerato dalla legge vigente un OGM in quanto il batterio utilizzato è un ceppo selvatico (wt).
A titolo informativo, considerato che sono attualmente ricercati portinnesti nanizzanti, è stato dimostrato che si possono ottenere portinnesti con soli 3 geni (rolABC) del batterio efficaci nel ridurne la taglia, come mostrato in foto 4).
Purtroppo questa ricerca è stata bloccata dal Ministero dell’Ambiente nel 2012 con l’imposizione di procedere all’incenerimento delle piante per motivi di natura ideologica. mentre analoghi esperimenti in campo autorizzato in actinidia con i 3 geni (rolABC) e in ciliegio, con cv Lapins innestata su Colt transgenico per tutto il riDNA hanno confermato quanto dimostrato preliminarmente in olivo in vaso.
Micropropagazione e miglioramento genetico
La micropropagazione per stimolazione delle gemme ascellari può contribuire al supporto del miglioramento genetico tradizionale attraverso il salvataggio di embrioni immaturi (foto 5), non in grado di arrivare autonomamente a maturazione, in genere originati da incroci inter-varietali) o da incroci tra sativa e sottospecie del “gene pool” delle Oleacee non perfettamente compatibili sessualmente.
Considerato il lungo tempo necessario per ottenere piante da seme da incroci, la tecnica da noi proposta e descritta in dettaglio da Rugini e De Pace, (2016) permette nello stesso anno solare dell’incrocio di ottenere 5 e più cloni (ramets) sviluppati da un singolo genotipo (ortet) per permettere contemporaneamente la sperimentazione in ambienti differenti.
Per accelerare la germinazione si potrebbe ricorrere alla estrazione dei semi previa rottura dei nòccioli di frutti maturi, conservazione in frigorifero in sabbia o perlite e torba umida per circa un mese, posti in terriccio dove, dopo 4-5 settimane, inizieranno a germinare.
Valutazioni in vivaio e in campo
La letteratura scientifica ha espresso parere positivo sulla performance delle piante in vivaio e a dimora sia dal punto di vista vegetativo che riproduttivo, tanto che molte cultivar fioriscono e allegano addirittura in vivaio. In un solo caso fu osservata una riduzione della allegagione nei primi anni a dimora sulla cv Carolea (molto vigorosa), ma non sulla meno vigorosa Nocellara Etnea.
Tuttavia, questo fenomeno non sembra correlato tanto con la vigoria intrinseca della cultivar, quanto alla cultivar stessa perché si manifesta in molte varietà indipendentemente dal metodo di moltiplicazione. Un semplice trattamento fogliare con acido abscissico o con prodotti che ne stimolino la sintesi, si è rilevato efficace nel favorire l’allegagione. Questo tipo di trattamento induce temporaneamente la chiusura stomatica e quindi la crescita dei germogli, limitando la competizione con i fiori, senza interferire sugli allungamenti dei germogli, che se misurati al termine della stagione vegetativa risultano più lunghi.
Riguardo alla stabilità genetica, piccole variazioni, rilevate a mezzo RAPDs, sono state riportate da ricercatori iraniani, ma solo a carico di germogli provenienti da numerose subcolture, ma trattandosi probabilmente di variazioni epigenetiche non destano particolari problemi. Questa osservazione è stata smentita, usando la stessa metodica analitica e confermata da osservazioni fenotipiche in campo da altri autori su numerose cultivar: Canino, Carolea, Maurino, Moraiolo, Frantoio, Leccino, Dolce Agogia, Nocellara, Empeltre, Arbequina e Picual.
La letteratura scientifica da sempre ha messo in risalto la rapidità di crescita delle piante da vitro e la qualità dell’architettura della parte epigea e ipogea sia in vivaio sia in campo (foto 6) e suggerito possibili vie per ulteriori miglioramenti, come ad esempio un’estensione del periodo di luce giornaliero (foto 7).
I risultati sono confermati da recenti ricerche condotte su vasta scala su impianti ad altissima densità (foto 8) realizzati con piante di 40-60 cm, dai laboratori Vitroplant in Italia, in Tunisia e in Algeria .
Risultati su Arbequina, Arbosana e Frantoio
Le osservazioni hanno iniziato dal vitro ed hanno preso in esame i germogli con più di 2 foglie per nodo (3 e 4), che frequentemente si formano in coltura (sospettati di trasmettere un certo grado di giovanilità alle piante a dimora da essi derivati).
È stato dimostrato che i germogli con più di 2 foglie per nodo non aumentavano col numero delle subcolture, ma al contrario diminuivano (i germogli da 70 subcolture ne producevano meno di quelli da 5 e 25) e che il fenomeno era cultivar dipendente (la cv Arbequina, di minore vigoria in vitro, presentava un 20-25% di germogli con più di due rispetto all’Arbosana e Frantoio).
Inoltre, a dimora hanno dimostrato che tutte le piante da vitro della cv. Arbequina manifestavano un buon vigore sin dal primo anno, in particolare quelle con 3 foglie, che si esprimeva con altezza e diametro del fusto superiori a quelle da talea. Infine, al 2° anno il numero di piante fiorite era inferiore a quelle da talea ma al 3° anno quasi il 100% di esse presentavano fiori distribuiti prevalentemente nella parte mediana e superiore della chioma, che hanno assicurato un totale recupero della produzione dei frutti persa in precedenza.
In vivaio le piante da vitro delle cv Arbequina ed Arbosana hanno fatto registrare un accrescimento più rapido con allungamento del fusto di tipo ortotropo che non richiede il tutore, contrariamente a quelle da talea, il cui accrescimento di tipo plagiotropo hanno tendenza a sviluppare molto precocemente i rami laterali che limitano l’allungamento del fusto e al contempo richiedono un tutore. Le piantine da vitro presentavano un numero di foglie, un peso secco e indice di colore SPAD (correlato al contenuto in azoto) più elevati e densità stomatica inferiore. L’apparato radicale era voluminoso con orientamento geotropico e con distribuzione ottimale delle radici, più evidente nella cv Arbosana (foto 9).
A dimora le piante da vitro di Arbequina, al 2° anno presentavano un volume della chioma maggiore con cime più robuste e più corte, con rami primari lungo il fusto più numerosi e uniformi e di calibro ridotto con disposizione spaziale regolare senza perdita della gerarchia del cono. L’80% delle piante mostravano valori di forma della chioma ottimali contro il 30% delle piante propagate per talea. Anche in questo caso, sebbene le piante da talea risultassero inizialmente più produttive per il maggior numero di piante fiorite, al 3° anno la situazione si era capovolta: il 90% delle piante micropropagate si collocavano nelle classi più alte di fertilità e solo il 7% in classi più basse e 3% improduttive. La produzione cumulata del 2° e 3° anno ammontava a 12,5 t delle micropropagate contro 11,5 t di quelle da talea. L’apparato radicale, rispetto a quello delle piante da talea, risultava più sviluppato con maggior numero di radici primarie, in media 5 per pianta, ben distribuite a 360°, mantenendo il numero iniziale con un angolo geotropico più stretto (circa 30°).
Leggi anche: Propagazione in vitro di Arbequina e Coratina
Olivo in vitro, tutti i vantaggi
La micropropagazione dell’olivo oggi è una realtà dalla quale non si può prescindere. Il ritardo nell’affermarsi su vasta scala, non è dovuto tanto alla messa a punto della tecnica, poiché da quasi 40 anni si dispone di un buon substrato di coltura, di esperienza scientifica/tecnica e di laboratori commerciali di primo ordine per affidabilità e competenza, quanto ad una avversa pubblicità a difesa delle tecniche tradizionali. Sono state mosse critiche alla tecnica in vitro per presunti problemi inerenti la fioritura sempre smentiti. Oggi che i risultati sono stati portati alla conoscenza del grande pubblico con dimostrazioni su vasta scala, non è più possibile mettere in discussione la validità della tecnica.
Le piante da vitro si distinguono già in vivaio per rapidità, uniformità di crescita e facilità di allevamento in quanto non necessitano di tutori. A dimora manifestano le caratteristiche ideali di architettura della chioma e dell’apparato radicale, difficilmente realizzabili con la talea, adatte a qualsiasi tipologia d’impianto, capaci di ben ancorarsi e di sfruttare al meglio le risorse idriche e minerali del suolo come fossero innestate su semenzale; ciò dovrebbe essere sufficiente a dissuadere gli agricoltori dal richiedere ancora le piante innestate, almeno fino a quando i portinnesti non siano utili per assolvere ad altre funzioni.
Il maggior vigore delle piante micropropagate ritenuto dai non esperti addirittura dannoso per il fatto che limita la produzione nei primi due anni si è mostrato invece utile per accelerare la crescita iniziale e recuperare la produzione precedentemente persa già al terzo anno. Anche gli ipotetici errori relativi alla scelta del materiale iniziale non potranno essere più motivo di preoccupazione, perché la tecnica è stata calibrata sull’uso tassativo di gemme di rami maturi e acquistate, quando possibile, da Centri preposti alla conservazione delle piante madri certificate. Sono esclusi dall’utilizzo gemme derivate da polloni e, per precauzione, nemmeno quelle da succhione, almeno fin quando non giungeranno maggiori chiarimenti e/o rassicurazioni da parte della ricerca scientifica. È infatti auspicabile una ripresa dell’attività scientifica, oggi peraltro facilitata da tecniche molecolari, per approfondire le conoscenze inerenti la giovanilità di transizione, il rinvigorimento e le variazioni epigenetiche.
Gli ottimi risultati per le varietà straniere utilizzate per gli impianti ad altissima densità sono emersi anche in cultivar con differente vigoria, appartenenti prevalentemente al patrimonio olivicolo locale italiano, come le cv. Canino, Moraiolo, Galega, Frantoio, Maurino, Dolce Agogia e selezioni varie. Considerata la crescente richiesta di altre cultivar del patrimonio olivicolo italiano, come il Piantone di Mogliano, Maurino, Leccio del Corno, ad habitus vegetativo relativamente contenuto ben presto appariranno sul mercato e in coltivazione.
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è stato pubblicato su Olivo e Olio n. 1/2021
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