Dal rinnovamento dei frantoi alla valorizzazione dei sottoprodotti, fino al difficile equilibrio tra nuovi impianti e oliveti storici: il professore Maurizio Servili dell’Università di Perugia traccia le priorità per una filiera competitiva e sostenibile.
La filiera olivicola-olearia vive una fase di profonda trasformazione. Innovazioni tecnologiche nei frantoi, nuove prospettive di classificazione della qualità, la sfida ancora aperta della valorizzazione dei sottoprodotti e il delicato equilibrio tra impianti tradizionali e nuovi modelli colturali: sono questi i temi al centro del confronto con Maurizio Servili, professore dell’Università di Perugia e punto di riferimento internazionale per la ricerca sull’olio extravergine.
Le tre parole chiave della trasformazione secondo Maurizio Servili |
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Professore, lei afferma che il futuro dell’olivicoltura passa da una sola parola: trasformazione. Perché oggi questo concetto è così centrale e quali sfide racchiude?
«La trasformazione è il vero snodo strategico della nostra filiera. Non parliamo solo di frangitura e processi tecnologici, ma di un concetto più ampio che include la capacità di valorizzare ogni fase: dalla gestione degli impianti olivicoli alla qualità del prodotto, fino al destino dei sottoprodotti. Se vogliamo che l’Italia rimanga competitiva, dobbiamo investire in ricerca, innovazione e organizzazione industriale, senza perdere di vista la sostenibilità e l’identità dei nostri territori».
Negli ultimi anni i frantoi italiani hanno compiuto progressi importanti sul piano tecnologico. Quali sono le innovazioni più significative e in che modo stanno cambiando la qualità dell’olio extravergine?
«È vero, la tecnologia ha fatto passi avanti enormi. Penso al raffreddamento delle olive e delle paste, agli scambiatori di calore, fino alle soluzioni che permettono di preservare al meglio la frazione fenolica, così importante per la qualità e la stabilità dell’olio. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha dato un contributo significativo al rinnovamento dei frantoi e oggi la maggioranza delle strutture italiane dispone di un livello tecnologico medio-alto. Questo significa che la qualità non è più un traguardo per pochi, ma un obiettivo raggiungibile su larga scala, purché si lavori con rigore e competenza».
Si discute sempre più di differenziazione qualitativa dell’olio extravergine. Quali opportunità potrebbero nascere da una nuova classificazione della qualità?
«L’attuale classificazione dell’olio extravergine è ormai riduttiva. Il mercato internazionale è pronto a riconoscere e premiare categorie qualitative più specifiche, che valorizzino gli oli di eccellenza, quelli ad alto contenuto fenolico, così come i prodotti con caratteristiche sensoriali particolari. Una differenziazione chiara permetterebbe ai produttori italiani di distinguersi ancora di più e di intercettare consumatori attenti e disposti a riconoscere il valore della qualità. È un passaggio che aprirebbe nuove opportunità di mercato e rafforzerebbe la competitività del nostro sistema».
La questione dei sottoprodotti di frantoio – dalle sanse alle acque di vegetazione – resta cruciale. Con la recente sentenza sul biogas e i limiti sempre più stringenti per l’olio di sansa, il quadro si complica ulteriormente. Quali sono, a suo avviso, le strade percorribili per una vera valorizzazione dei sottoprodotti?
«Il biogas può essere una via, ma non può essere l’unica. La sentenza sul mancato riconoscimento del doppio incentivo del Gestore dei Servizi Energetici ha reso evidente un rischio che segnalavo da anni: affidare quasi esclusivamente al biogas lo smaltimento della sansa significa trovarsi in una situazione di monopolio, con il pericolo che prima o poi siano i frantoi a dover pagare per disfarsene. L’olio di sansa a uso alimentare, inoltre, rischia di diventare sempre meno sostenibile per le normative sui contaminanti. La vera sfida è differenziare: valorizzare una parte dei sottoprodotti per usi alimentari e zootecnici, estrarre molecole ad alto valore come i polifenoli, destinare una quota al biogas e organizzare filiere industriali integrate. La Spagna ci insegna che questo è possibile: lì nulla va sprecato, mentre noi siamo ancora molto indietro».
Guardando oltre i nostri confini, la Spagna ha sviluppato un sistema più integrato nella gestione della sansa e dei sottoprodotti. Dove stiamo perdendo terreno e quali leve dovremmo attivare per colmare il divario?
«La Spagna ha saputo organizzarsi in modo più efficiente, mantenendo attivi i sansifici e integrando il ciclo produttivo. In Italia, invece, molti sansifici hanno chiuso e non esiste una strategia di sistema per il riutilizzo della sansa a due fasi, che presenta tassi di umidità molto alti. Per colmare il divario serve una volontà politica chiara e una maggiore sinergia tra ricerca, imprese e istituzioni. Non possiamo continuare a valorizzare solo il 12% del frutto – l’olio – lasciando che l’80-90% restante diventi uno scarto. Una filiera moderna deve puntare a trasformare tutto in valore, come accade già nel settore vitivinicolo».
Il ciclo della filiera olivicola-olearia |
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Professore, il consumatore oggi è sempre più attento alla sostenibilità e alla tracciabilità. Quanto conta comunicare non solo la qualità sensoriale e salutistica dell’olio, ma anche il suo valore ambientale e sociale?
«Conta molto in quanto la sensibilità ambientale sta crescendo notevolmente presso i consumatori e l’olivo può giocare e di fatto gioca, un ruolo molto positivo non solo sul sequestro del carbonio ma anche nella stabilizzazione idrogeologica e la conservazione paesaggistica delle diverse aree geografiche del Paese dove la coltura insiste. Questo ruolo è spesso affidato agli oliveti tradizionali, che sono spesso presenti in aree marginali e geologicamente fragili ed anche per questo il loro abbandono potrebbe avere effetti negativi rilevanti sulla stabilità idrogeologica di alcune aree del Paese oltre a comprometterne la bellezza Paesaggistica. Tutto ciò però si deve conciliare con la sostenibilità economica degli oliveti tradizionali e questo significa che il valore dell’oliveto si dovrebbe spostare dalla mera bottiglia d’olio ad un quadro più ampio che includa anche questi importantissimi ruoli che l’oliveto svolge in silenzio, senza troppo clamore».
Negli ultimi anni si parla molto di nuove tecnologie digitali e intelligenza artificiale applicate all’agricoltura. Quali opportunità intravede per l’olivicoltura in termini di monitoraggio, gestione dei dati e supporto alle decisioni agronomiche?
«La ricerca scientifica nel settore agronomico è da diverso tempo a lavoro in questa direzione e sono molti gli esempi applicativi nei quali la sensistica avanzata, collegata o meno all’intelligenza artificiale, viene applicata per l’ottimizzazione delle pratiche agronomiche da svolgersi in campo al fine di migliorare efficienza produttiva e sostenibilità ambientale dell’oliveto. La sfida del futuro alla quale la ricerca tecnologica si sta orientando e quella di applicare la sensistica avanzata e l’intelligenza artificiale anche al controllo delle variabili di processo nel corso relative all’estrazione meccanica in modo da ottimizzare l’efficienza estrattiva e la qualità dell’olio vergine di oliva».
Professore, prima di lasciarci: se dovesse fare una sola raccomandazione a chi oggi sta lavorando al Piano olivicolo nazionale, quale sarebbe?
«Direi senza esitazione la gestione agronomica: serve equilibrio tra nuovi impianti e mantenimento dei tradizionali, che custodiscono biodiversità e identità territoriale. È questa la vera sfida strategica. E aggiungerei una seconda priorità: la valorizzazione dei sottoprodotti, perché lì siamo molto indietro e stiamo sprecando enormi opportunità. L’innovazione tecnologica nel processo di trasformazione ha fatto passi avanti straordinari, ma sul fronte agronomico e su quello della sostenibilità dei sottoprodotti abbiamo ancora molta strada da fare».
L’articolo è disponibile per i nostri abbonati su Olivo e Olio n. 5/2025
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