L’azienda agraria Viola ha una storia simile a quella di molte altre, tramandata in famiglia da generazioni, ma si è trasformata rivoluzionando il modo di produrre per collocarsi nel segmento produttivo degli oli extravergini di oliva di eccellenza.
L’azienda si trova Sant’Eraclio, vicino a Foligno, e il suo successo è stato scandito, da un ventennio a questa parte, dai numerosi premi ricevuti in concorsi italiani e internazionali nonché dall’inserimento nelle più importanti guide del settore, tra cui Flos Olei: proprio questa guida di rilevanza internazionale l’ha anche collocata nella Hall of fame delle aziende olearie mondiali.
Con il titolare Marco Viola parliamo delle scelte che hanno segnato il percorso dell’azienda verso l’alta qualità.
Quale è stata l’evoluzione dell’azienda nel tempo e quali sono state le sue esperienze nella sua gestione?
«L’azienda Viola nasce come azienda agricola tradizionale sotto la guida di mio nonno agli inizi del 1900. Anche se già al tempo aveva una parte considerevole di oliveti, la specializzazione olivicola è avvenuta sotto la guida di mio padre e il profilo aziendale si è delineato verso la produzione di olio extravergine di oliva (evo). Io ho continuato e sviluppato ulteriormente questa linea, e oggi facciamo esclusivamente olio evo di eccellenza.
In azienda ho vissuto il cambiamento dagli impianti tradizionali, la raccolta effettuata completamente a mano, il vecchio frantoio a presse: era un sistema guidato anche da obiettivi produttivi diversi. Basti pensare a come è cambiata l’epoca di raccolta, che oggi si concentra tra ottobre e novembre: praticamente concludiamo le operazioni di raccolta quando prima si iniziavano. Il valore aggiunto era il rendimento in olio della coltura, perché l’olio era una materia preziosa. Lo è stata storicamente, soprattutto se si guarda alla prima metà del secolo scorso: con l’olio si pagavano le giornate di lavoro degli avventizi. L’olio di oliva era una fonte alimentare rara, uno dei pochi grassi vegetali disponibili ad esempio nel Centro e Sud Italia, ed è chiaro, dunque, che raggiungere rese più elevate era la chiave del successo economico.
Dall’ottica della resa ci si è lentamente allontanati, e quando ho preso in mano la gestione dell’azienda ho cambiato radicalmente le strategie e la gestione complessiva, sia per quello che riguarda la parte di coltivazione sia per l’estrazione e la tecnologia impiegata in frantoio, perseguendo nuovi obiettivi e puntando alla produzione di alta qualità».
Tra quelle che ha dovuto compiere, quale è stata la scelta operativa decisiva per avviare la produzione verso l’eccellenza?
«L’attività aziendale è quasi del tutto concentrata sull’olivo e sul frantoio che in passato era utilizzato anche per conto-terzi; abbiamo cessato questa attività nel 2010-11: una scelta forse simbolica del percorso che avevo ormai intrapreso. Abbiamo chiuso il servizio a terzi sentendone anche il peso, perché offrivamo un servizio alle aziende del territorio, e ci siamo sempre impegnati per offrire il miglior risultato qualitativo per chi ci consegnava le olive. Ma per poter lavorare le tue olive al meglio, il frantoio deve essere dedicato alla produzione interna: è essenziale avere le macchine sempre disponibili, lavorare, con una tecnologia all’avanguardia, con la massima attenzione, potendo dividere le lavorazioni di partite diverse per oli evo diversi. Privilegiare il conseguimento dei nostri obiettivi qualitativi sul prodotto aziendale, insieme ad altre scelte, ci ha portato a quello che siamo oggi, concentrati sulla produzione in bottiglia e con un prodotto che tocca l’eccellenza, presente su circa 40 mercati internazionali».
Lavorate solo la materia prima che producete. Come è organizzato il settore olivicolo dell’azienda?
«Possiamo contare su circa 100 ettari di oliveti, tra proprietà e affitto, a cui si aggiungono gli oliveti di aziende del territorio storicamente legate alla nostra: in tutti gli oliveti curiamo gli aspetti agronomici e di gestione delle operazioni di raccolta e ovviamente la lavorazione delle olive. La dimensione che abbiamo raggiunto, a livello di superfici gestite, ci consente di mantenere una certa massa critica, cioè una produzione quantitativa continuativa nel tempo di cui disponiamo per la produzione dei nostri extravergini.
Quello di avere una base di produzione olivicola ampia è un presupposto importante. Lavoriamo con oliveti costituiti da piante di taglia piccola, con produzioni unitarie piuttosto basse e soggette alle alternanze fisiologiche, a eventi climatici straordinari come grandine e gelate; ma per stare sul mercato dobbiamo mantenere una certa produzione tutti gli anni, anche perché lavorando le olive precocemente e a bassa temperatura i nostri rendimenti in olio sono bassi».
Quali sono le caratteristiche degli oliveti che possedete e gestite?
«Si tratta di impianti tradizionali, con l’eccezione di alcuni oliveti più giovani, messi a dimora da mio padre e da me, con sesti di 5 x 5 m o 5 x 6 m, mentre non abbiamo oliveti ad alta densità: ci stiamo aprendo alla possibilità di lavorare con impianti intensivi ma se li faremo saranno comunque oliveti che guardano alla tradizione e con varietà di olivo autoctone.
Gli impianti tradizionali sono molto vecchi, nella maggior parte si tratta di piante secolari che sono state tagliate al ciocco dopo la gelata del 1985. Un evento che anche nella nostra azienda è stato seguito da errori piuttosto gravi, primo tra tutti quello di allevare più piante dalla stessa ceppaia (piante policauli), con l’illusione di aumentare la produzione».
Avete fatto successivamente degli interventi di riforma?
«Sì, quando ho preso in mano la gestione aziendale ho iniziato un lavoro di recupero e di riforma di questi impianti per ripristinare un’unica pianta, cercando di ritrovare l’equilibrio tra l’apparato radicale e la chioma. È stato un lavoro lungo e difficile, ma che ho fatto con la consapevolezza che proprio queste piante, su queste colline, rappresentano un tesoro inestimabile.
Perché la grande forza di un’azienda come la mia, il suo successo e il successo di aziende che hanno intrapreso percorsi simili, è l’unicità. Unicità di prodotto, unicità del territorio in cui cresce l’olivo e in cui vengono lavorati i frutti, l’unicità delle cultivar. Un concetto chiave anche per la comunicazione commerciale dell’azienda».
Un concetto che si lega quindi anche alla tipicità?
«Certamente, perché la collocazione geografica per un’azienda che produce olio extravergine dalle olive alla bottiglia non è casuale. Produrre extravergine non può prescindere dal legame con il territorio; questo perché il prodotto ha delle caratteristiche che non sarebbero tali se le olive avessero una diversa provenienza, e questa relazione unica è anche il messaggio da comunicare al consumatore sensibile, nazionale o internazionale, è un valore aggiunto, oltre a quello della qualità globale del prodotto (organolettica e analitica): e se parliamo di una qualità legata al territorio, noi che viviamo del territorio dobbiamo anche saperla raccontare».
Lo “storytelling” sul legame con il territorio è quindi una strategia ben precisa di marketing, si riferisce a questo?
«Sì ma non è facile farlo! Perché questa strategia implica di soddisfare una serie di requisiti. Ad esempio riuscire a fare masse critiche di eccellenza e stare “sul pezzo” in tutte le fasi di produzione, a partire da quelle in campo. Ogni stadio del processo produttivo ha le sue criticità, ogni fase richiede il massimo dell’attenzione e della cura: non basta disporre delle migliori tecnologie in frantoio, perché queste permettono di esprimere il meglio da una materia prima di eccellenza, ma, se non si ha una visione integrata del processo produttivo e si fanno errori nella produzione di olive, non riescono a colmare le mancanze dei requisiti qualitativi della materia prima».
Per quanto riguarda il legame con il territorio, oltre le strategie individuali, la valorizzazione potrebbe passare anche attraverso i marchi territoriali. Quale è il loro valore?
«Tutte le iniziative di valorizzazione dei prodotti e del territorio possono essere valide, purché siano affrontate con buonsenso e siano effettivamente gestite con la conoscenza del settore. Per esempio in Umbria, una piccola regione a livello nazionale (produciamo l’1,6-1,8 % della produzione nazionale) esiste una Dop con un disciplinare ormai vecchio di trent’anni che, allo stato attuale, non offre una vera occasione di promozione dei prodotti del territorio. La Dop Umbria, ad esempio, ha cinque sottozone; è una ulteriore frammentazione che, quando il prodotto riesce a raggiungere lo scaffale, anche agli occhi del consumatore finale crea confusione.
Ci vorrebbe un po’ più di chiarezza e soprattutto ci si dovrebbe impegnare a costituire quelle masse critiche che consentono di essere presenti sugli scaffali; la comunicazione a mio giudizio si fa attraverso il posizionamento. Perché anche gli sforzi di promozione ben fatti, attraverso i media e i social, sono vani se il prodotto che comunichi poi non è presente sul mercato. Ed è intuibile che per farlo serve uno spirito di “squadra” nella filiera».
Torniamo a parlare dell’olivicoltura della sua azienda, e della gestione agronomica degli oliveti. Quali sono le problematiche più importanti dalla difesa fitosanitaria all’irrigazione?
«I nostri problemi credo siano quelli che caratterizzano gli oliveti di tutta Italia, e quindi la mosca al primo posto tra le priorità. L’alternanza del clima porta con sé anche l’insorgere di altri problemi, come la tignola, o le infezioni di occhio di pavone dovute alla maggiore frequenza di condizioni, soprattutto di umidità, che favoriscono patogeni fungini. Si è fatto sempre più necessario, mentre nel passato lo si faceva molto meno, condurre monitoraggi frequenti in campo. Anche in questo caso però la tecnologia dà una mano e sono utili alcuni strumenti come quello utilizzato da Assoprol Umbria, di cui faccio parte: un ottimo aiuto per allertare sui rischi nel corso della stagione.
Poi ci sono gli eventi eccezionali, come quello della gelata dello scorso anno, che ha fatto parecchi danni, soprattutto sulla cultivar Frantoio e oltre a farci perdere, negli oliveti interessati, la produzione del 2018, si ripercuoterà sulle prossime annate.
Per quanto riguarda l’irrigazione non la pratichiamo. Gli oliveti sono in asciutto; da un lato l’acqua non è una priorità, dall’altro predisporre l’irrigazione sugli impianti collinari e sesti irregolari sarebbe anti-economico. Siamo ricorsi solo in casi eccezionali e in oliveti limitati, all’irrigazione di soccorso con autobotti. L’umidità non manca e riusciamo a mantenerla nel terreno anche attraverso le trinciature-pacciamature del terreno per ridurre le perdite di acqua dal suolo».
La qualità è certamente un obiettivo che si raggiunge partendo dalla produzione del frutto, ma la fase di estrazione è altrettanto determinante. Qual è l’assetto attuale del frantoio e quali sono state le priorità nella scelta della tecnologia?
«Se negli oliveti, pur modificando la gestione, abbiamo mantenuto gli impianti tradizionali, sul frantoio e sulla tecnologia estrattiva abbiamo fatto i cambiamenti più importanti, con diversi investimenti e interventi nel tempo. Il cambiamento più rilevante è stata la dismissione della lavorazione con le presse e il passaggio a un impianto di lavorazione in continuo a tre fasi, che abbiamo fatto ormai venti anni fa. Uno dei primi risultati è stato quello di aumentare la capacità di lavoro e quindi di poter lavorare le olive raccolte in tempi brevissimi; l’attuale impianto e l’organizzazione del lavoro durante la raccolta ci consente di lavorare le olive entro cinque ore dalla raccolta.
E ovviamente l’utilizzo di tecnologie sempre più all’avanguardia ci ha portato anche a cambiare il modo in cui lavoriamo le olive e a modulare i parametri di lavorazione secondo la cultivar e lo stadio di maturazione a cui raccogliamo.
Dopo la defogliazione e il lavaggio le olive passano rapidamente nel frangitore. Utilizziamo un frangitore a giri variabili e con organi battenti variabili: per ogni lavorazione si può modificare l’energia che si applica al frutto, sulla base dello stadio di maturazione, della varietà, del grado di idratazione. Dopo il frangitore abbiamo inserito il condizionamento termico, che utilizziamo per abbassare o alzare la temperatura prima della gramolazione».
Quali vantaggi avete osservato?
«Il controllo della temperatura è stata una svolta. Sulle olive raccolte precocemente c’è un problema dovuto alla temperatura con cui entrano in frantoio, per via delle giornate di ottobre spesso calde e soleggiate; ma anche a condizioni normali, l’impatto meccanico degli organi frangitori sulla drupa crea necessariamente un aumento di temperatura. E più le temperature si alzano, più cambia il profilo aromatico dell’olio che ne risulta. Mantenendo il freddo si favorisce lo sviluppo di esteri ed aldeidi, responsabili di componenti volatili di “fruttato verde” mentre diminuiscono gli alcoli che sono invece responsabili di componenti aromatiche di “fruttato maturo”. Anche sulla temperatura, la scelta si orienta tra resa e qualità: a temperature elevate si riescono a raggiungere rese più elevate, ma si perde la componente aromatica che dà freschezza all’olio».
L’attenzione a tutte le variabili produttive vi ha condotto all’eccellenza, ma quali sono state le strategie per collocare i vostri prodotti sul mercato?
«Sono stati necessari 30 anni di lavoro! Con lo spirito di comunicare quell’unicità di cui parlavo prima, abbiamo tra l’altro rivisto, rispetto al passato, tutto il confezionamento, adottando una soluzione esteticamente elegante ma anche funzionale alla conservazione del prodotto, con una bottiglia scura e il tappo in alluminio. E poi la scelta di comunicare l’olio e la sua eccellenza, ispirandomi anche al mondo del vino e a quello che è stato fatto a suo tempo, nel settore enologico, nella comunicazione e nel prodotto. Così ad esempio ho valutato fondamentale associare gli oli evo che produco alle preparazioni gastronomiche e preparare carte degli oli evo per i ristoranti. Questo tipo di lavoro lo faccio in azienda, quando vengono anche dall’estero a visitare gli oliveti e offro l’olio in abbinamento a pietanze, anche semplici, che li esaltano; è uno stimolo che viene recepito dal consumatore attento e soprattutto dai distributori e tutti coloro che sono coinvolti nella commercializzazione».
Oli di eccellenza dalle cultivar umbre
Sono sei gli oli che costituiscono la gamma di prodotti dell’azienda Viola, «come sei figli tra cui non si può scegliere il preferito» ammette Marco Viola. In tutti sono protagoniste le varietà tipiche dell’Umbria, che si distinguono sulla base dell’intensità dei profumi e dei sapori, frutto del sapiente lavoro di differenziazione, delle raccolte e delle lavorazioni, per ottenere caratteristiche organolettiche e sensoriali uniche per ciascun prodotto.
Così Frantoio e Leccino sono protagonisti di Inprivio, un extravergine fresco dal fruttato leggero, ma anche del Nuovo, dove si esprimono con un fruttato più vigoroso e un aroma che vuole ricordare l’oliva appena franta. Nel Costa del Riparo il fruttato è medio ed è dato dalla miscela di Frantoio e Moraiolo prodotti con metodo biologico.
A portare il marchio Dop Umbria, per la sottozona Colli di Assisi-Spoleto, è invece l’olio extravergine di oliva “Colleruita”. L’olio evo dall’aroma fruttato intenso e dal gusto deciso è il Sincero, monovarietale che esprime tutte le componenti aromatiche del Moraiolo; infine tutte le cultivar autoctone vanno a costituire il blend “Tradizione”.
Leggi l’intervista a Marco Viola su Olivo e Olio n. 6/2019
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