Tra i prodotti che derivano dai frutti dell’olivo (Olea europaea L.), coltivato da millenni nei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, le olive da tavola e l’olio vergine d’oliva hanno rappresentato da sempre alimenti ad alto valore nutritivo (Gandul-Rojas e Gallardo-Guerrero, 2020). Attualmente le olive da tavola vengono consumate come antipasto e/o ingredienti culinari altamente salutari per il loro basso contenuto di zuccheri, alto contenuto di acidi grassi monoinsaturi, e alto contributo aggiuntivo di fibre, minerali, vitamine e componenti bioattivi (Rocha et al., 2020).
Diverse varietà d’olivo nel mondo vengono coltivate per la produzione di olive da tavola, alcune delle quali costituiscono senz’altro un patrimonio d’indubbio valore del Paese di origine. L’Italia con 450 varietà d’olivo autoctone è al primo posto per numero in quanto rappresentano il 14% del germoplasma olivicolo mondiale (Bartolini et al., 1998). Il catalogo del germoplasma olivicolo italiano (Muzzalupo, 2012), con le sue schede elaiografiche di 200 varietà di olive che rappresentano il 44% delle varietà presenti in Italia, non è che un esempio dell’elevata biodiversità italiana di questa specie.
Le produzioni di olive da tavola regionali
Ogni regione italiana ha nella sua tradizione almeno un metodo di trasformazione delle olive da tavola tipico legato alle abitudini locali, ma anche e soprattutto, alle caratteristiche peculiari delle varietà d’olivo presenti. La maggior parte di questi prodotti sono qualitativamente eccellenti ma esclusivamente di nicchia, ed è difficile industrializzare il processo di trasformazione. Alcune di queste però hanno un riscontro economico, se pur limitato. In Basilicata è presente la cultivar Majatica di Ferrandina per la sua tipica lavorazione in oliva nera. In Calabria bisogna ricordare la cultivar Grossa di Cassano per le lavorazioni in nero come olive disidratate. In Sardegna le cultivar Bosana, Pizz’e Carroga e Nera di Gonnos per le lavorazioni dell’oliva verde (Lanza e Poiana, 2012).
Inoltre, di notevole importanza commerciale sono le quattro cultivar d’olivo:
- Bella di Cerignola (pugliese),
- Itrana (laziale),
- Ascolana tenera (marchigiana)
- e Nocellara del Belice (siciliana)
che in Italia hanno ottenuto, ormai da tempo, il marchio di tutela giuridica “Denominazione di Origine Protetta” (DOP) rispettivamente con la denominazione di “Olive Bella della Daunia”, “Olive di Gaeta”, “Olive Ascolana del Piceno” e “Olive Nocellara del Belice”.
Metodi di deamarizzazione a confronto
Tutte le olive contengono un secoiridoide glicosidico, l’oleuropeina, dal sapore fortemente amaro, che rende le drupe non direttamente commestibili dopo la raccolta. Qualsiasi metodo di trasformazione delle olive ha come obiettivo primario la rimozione dell’amaro naturale di questo frutto (D’Antuono et al., 2016). I sistemi di trasformazione più diffusi sono quelli che utilizzano un’idrolisi alcalina o un’idrolisi lenta acida ed enzimatica. Inoltre, viene solitamente sviluppato un processo fermentativo da parte di batteri lattici e/o lieviti per aumentare l’appetibilità. Le olive verdi, che normalmente hanno un contenuto di oleuropeina maggiore, sono prevalentemente trasformate secondo il metodo “Sivigliano” o “Spagnolo”, mentre, le olive nere sono processate secondo il metodo “Greco”, noto anche come “al Naturale”, o seguendo il metodo “Californiano” (Romeo e Muzzalupo, 2016).
In questo lavoro si riportano i risultati relativi alla trasformazione in olive da tavola di drupe appartenenti a tre cultivar italiane che vengono classificate come olive a duplice attitudine, cioè, adatte sia all’estrazione dell’olio che alla trasformazione in olive da tavola. Le olive delle cultivar Carolea (calabrese), Leccino (toscana, ma ormai ubiquitaria in Italia) e Nocellara messinese (siciliana) (foto in apertura) vengono messe a confronto a seguito del processo di trasformazione Sivigliano. (...)
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