L’olivicoltura del futuro, come peraltro l’intera agricoltura, non potrà più prescindere da una gestione che non sia sostenibile sia sotto il profilo economico sia per quello ambientale. Per cercare di individuare quale possa essere l’olivicoltura redditizia ed ecocompatibile di domani, e come costruirla, hanno offerto preziosi contributi i relatori del webinar “Le nuove frontiere dell’olivicoltura nel contesto della green economy” organizzato dall’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio insieme con la Società dell’Ortoflorofrutticoltura Italiana (SOI).
Costante processo di intensificazione della coltura
Per Tiziano Caruso, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Forestali (Dipartimento Saaf) dell’Università di Palermo, «i sistemi di impianto in olivicoltura nell’era della green economy dovranno essere basati su cultivar deboli, a fruttificazione precoce, altamente produttive, poco alternanti, con rami flessibili, procombenti, in sistemi di impianto intensivi a media-alta densità (650-1200) e gestibili da terra (oliveti pedonali)».
Da circa 50 anni si è avviato in Italia un lento ma costante processo di intensificazione della coltivazione dell’olivo, passando dagli oliveti tradizionali (100-250 olivi/ha) prima a quelli intensivi (300-600 olivi/ha) e dopo a quelli superintensivi (più di 1.200 olivi/ha). Questi ultimi sono basati su cultivar “globali”, Arbosana, Arbequina e Koroneiki, perciò non comprese nei disciplinari Dop e Igp degli oli italiani. «È stata e rimane una evoluzione difficile, poiché l’olivicoltura italiana poggia sulla piccola proprietà coltivatrice (in media circa 1-3 ha), poco avvezza all’innovazione, su un’ampia base varietale (il 70% dell’olio di oliva prodotto deriva da 10 cultivar principali, il 25% da 20 cultivar minori, il 5% da numerose cultivar neglette) valorizzata da numerose Dop e Igp».
Seguendo l’esempio dei frutteti pedonali, nei quali la riduzione dell’altezza delle piante da 3,00 a 2,20 m consente di diminuire i costi di circa il 35%, sono stati realizzati in Sicilia già nel secolo scorso oliveti pedonali per favorire la raccolta di olive da tavola (oggi anche a marchio Dop “Nocellara del Belice” con piante allevate a ombrello o “vaso belicino”). Tale forma si è poi estesa anche all’olivicoltura da olio (Dop “Valle del Belice”).
«Ma questo modello produttivo – ha evidenziato Caruso – presenta diversi limiti: bassa densità di impianto, modesta e non omogenea quantità di luce intercettata, difficoltà di meccanizzazione. La sostenibilità ambientale, richiesta dalla green economy, esige invece un aumento della quantità di luce intercettata utile ai fini della fotosintesi del sistema produttivo. Maggiori quantità di luce vengono intercettate, come dimostrato anche da progetti di ricerca realizzati in Sicilia, da un sistema olivicolo (2D) costituito da molte piante di piccole dimensioni disposte secondo sesti rettangolari, con forma della pianta a parallelepipedo (palmetta libera), anziché da poche piante di grosse dimensioni allevate a vaso/globo (sistemi olivicoli 3D)».
Olivicoltura sostenibile, architettura e gestione chioma
Ma in un oliveto ad alta densità quali sono l’architettura e la gestione della chioma più adeguate? Per Enrico Maria Lodolini, ricercatore del Crea-Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura, sede di Roma, «le caratteristiche di una cultivar per l’idoneità alla coltivazione intensiva dell’olivo devono essere le seguenti: maggiore ramificazione, minore diametro di tronco, branche e rami, maggiore rapporto foglie/legno, maggiore fruttificazione per nodo, maggiore efficienza produttiva, abilità di produrre di più in minore volume, maggiore flessibilità delle branche produttive per minore suscettibilità a danni con la raccolta con macchina scavallatrice».
Naturalmente, di pari passo con l’intensificazione colturale, che poggia sull’anzidetta architettura della pianta dell’olivo, occorre una strategia coerente per la gestione della tecnica di coltivazione.
«Nella potatura di formazione: la cima dell’asse va preservata mantenendo una forma della chioma libera e guidando la crescita con interventi di potatura minima; le ramificazioni laterali nel senso del filare vanno fatte sviluppare per chiudere lo spazio tra una pianta e l’altra mentre quelle troppo rigide nell’interfila sono da eliminare in modo selettivo quando diventano un ostacolo per il passaggio della macchina scavallatrice; occorre eliminare gradualmente le branche laterali sul fusto fino a 60 cm di altezza. Gli interventi di potatura devono essere differenziati per posizione sulla chioma ed epoca d’intervento. In piante adulte, una volta raggiunte le dimensioni finali della chioma (limiti dettati dal tipo di macchina utilizzata per la raccolta), una potatura manuale minima ma selettiva della parete laterale eseguita a fine inverno consente di eliminare branche danneggiate e stimolare il rinnovo. Un taglio superiore orizzontale non selettivo (topping) eseguito in estate contribuisce a limitare l’altezza della pianta contenendo la crescita vegetativa nella porzione apicale della chioma».
Altissima densità e altissima sostenibilità
È luogo comune, ha ricordato Salvatore Camposeo, docente del Dipartimento di Scienze Agro-Ambientali e Territoriali (Disaat) dell’Università di Bari, che l’olivicoltura ad altissima densità sia una “bomba ecologica”, in quanto favorirebbe, più della tradizionale e della intensiva, l’insorgenza di malattie fungine e di danni da fitofagi e richiederebbe un maggiore apporto di prodotti fitosanitari.
«Invece l’olivicoltura ad altissima densità offre ottime garanzie di sostenibilità agronomica, economica e ambientale, perfettamente in linea con i criteri di sostenibilità stabiliti dalla Pac 2014-2020 e ripresi dalla Pac post 2020, cioè minore utilizzo dei fattori produttivi e minore produzione di rifiuti e di emissioni. La gestione agronomica di un oliveto superintensivo non è diversa da quella di un oliveto intensivo, tranne per la raccolta, compiuta con macchina scavallatrice in continuo, e la potatura, effettuata con macchine potatrici che effettuano il topping e l’hedging. L’irrigazione, localizzata a goccia, è indispensabile, ma non prevede, a seconda dell’andamento climatico stagionale, più di 2.500 m³/ha, con turno irriguo di 3-5 giorni. La concimazione, in relazione alla dotazione del terreno e ai fabbisogni delle piante in macro e microelementi, non si discosta da quella dell’oliveto intensivo. La gestione del suolo, distinguendo l’interfila dalla fila, non è differente da quella realizzabile in un oliveto intensivo a sesto in rettangolo».
Anche per la difesa fitosanitaria dell’oliveto ad altissima densità non occorre una specifica linea di difesa, basta tanto quanto si fa negli oliveti intensivi: il controllo guidato con impiego di trappole cromotropiche, in funzione del decorso climatico, due trattamenti insetticidi e due-tre trattamenti contro l’occhio di pavone e la rogna dell’olivo. Certo, se si realizzano oliveti superintensivi in aree settentrionali e quindi più umide, la difesa cambia, ma ciò vale anche per gli oliveti intensivi: quindi l’incremento di trattamenti fitosanitari in tali zone dipende non dal sistema colturale, ma dall’ambiente climatico nel quale si realizza un oliveto, qualsiasi forma di allevamento si adotti. Inoltre, a ulteriore dimostrazione della sostenibilità ambientale del sistema colturale ad altissima densità, riporto la presenza, in alcuni di essi, di indicatori biologici, tutti compresi nel formulario Natura 2000 per il rispetto e la conservazione degli habitat naturali: l’orchidea Serapias lingua, a impollinazione entomofila, indice della presenza degli insetti impollinatori, che non vengono uccisi dai pochi trattamenti fitosanitari; il fungo Coprinus spp., bioindicatore dell’inquinamento da metalli pesanti, poiché non cresce dove questi sono presenti; nidi di Sylvia melanocephala o occhiocotto, un uccello insettivoro dell’ordine dei Passeriformi che ama vivere in ambienti caratterizzati da vegetazione densa e bassa».
Misurando, anzi, la sostenibilità dell’olivicoltura ad altissima densità in termini di Life Cycle Assesment, di Carbon footprint e di Water footprint, questi parametri, ha illustrato Camposeo, sono risultati migliori rispetto ai corrispondenti dell’olivicoltura tradizionale e di quella intensiva. «Tuttavia sono risultati raggiungibili solo se l’olivicoltore professionale conduce l’oliveto superintensivo secondo i criteri fondanti della moderna frutticoltura, considerando l’olivo come una specie arborea da frutto, al pari delle altre. Per far questo, gli sono necessari tre requisiti: mentalità imprenditoriale, mentalità frutticola e assistenza tecnica specializzata».