Le parole d’ordine sono più di una: intensificazione della coltura, ristrutturazione dell’esistente, taglio dei costi e tecniche agricole di precisione. Queste le linee guida uscite dal convegno di Spoleto sul rilancio dell’olivicoltura italiana dove si sono dati appuntamento i diversi attori della filiera. Organizzato dall’Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio e dal Comune di Spoleto, l’incontro è stato occasione di approfondimenti sugli aspetti tecnico-scientifici e di confronto tra la filiera olivicolo-olearia le istituzioni nazionali e regionali.
Ma soprattutto è stata l’occasione per “dare una scossa” a un settore ormai intorpidito da troppi anni. Una mentalità arretrata arroccata al concetto che solo la coltura tradizionale sia sinonimo di qualità, ha generato un declino inarrestabile: nello scacchiere internazionale l’Italia è rimasta ferma a 50 anni fa (tabella) con una produzione che oscilla, allora come adesso, intorno alle 400mila t e con i rapporti di forza tra i Paesi del Mediterraneo che si sono profondamente modificati. Infatti, mentre il Belpaese rappresentava il 30% della produzione mondiale, ora è sceso al 15% lasciando il passo all’ormai fortissima Spagna che esprime i 44% con il suo milione e 257mila t (media 2009-2013).
Per riguadagnare terreno occorre, dunque, aumentare la produzione con l’individuazione di strategie, il rinnovo degli oliveti, e la volontà di investire. A questo proposito è arrivato il Pon (Piano olivicolo nazionale) con i suoi 32 milioni di euro destinati, tra l’altro, a nuovi impianti e ristrutturazione dell’esistente.
«Una bella somma – commenta Riccardo Gucci dell’Università di Pisa e presidente dell’Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio – ma una goccia nel mare degli investimenti. È sicuramente un’inversione di tendenza, apprezziamo lo sforzo ma ora occorrono azioni coerenti tra gli attori della filiera e le istituzioni, un’integrazione tra i diversi segmenti per utilizzare al meglio quelle risorse, solo così si ottengono risultati».
Da cosa è dipeso il declino della nostra olivicoltura?
«Dall’arretratezza che contraddistingue l’Italia, anche politicamente. Non abbiamo mai avuto un Piano olivicolo, mentre la Spagna ha investito massicciamente dagli anni ’80 in poi con i risultati che si vedono. E a seguire gli altri: Turchia, Tunisia, Croazia… Anche perché se non invertiamo la tendenza degli ultimi trent’anni, nella competizione internazionale continueremo a perdere quote di mercato, senza considerare i riflessi sociali su quel milione di ettari investiti in olivicoltura anche per quanto riguarda il territorio e l’occupazione».
Quindi bisogna intensificare. Ma non potrebbe essere negativo per la tipicità che contraddistingue l’olivicoltura italiana?
«Il nostro problema è di ordine culturale: produrre di più non significa abbandonare la qualità (...)»
L’articolo completo è disponibile su richiesta presso la redazione di Olivo e Olio