«Il panel test? Un buon metodo, ma occorre individuare standard di riferimento più precisi». Parola di Lanfranco Conte dell’università di Udine, uno dei maggiori esperti a livello internazionale di chimica degli alimenti. All’indomani del clamore mediatico suscitato dal coinvolgimento di importanti marchi storici italiani l’eco delle grida allo scandalo risuona ancora.
«Io sono per punire i colpevoli ma, attenzione, bisogna avere elementi certi se no si rischia di rovinare un pezzo dell’economia italiana». Il riferimento di Conte è al fatto che, se dal controllo dei campioni prelevati l’olio viene declassato da extravergine a vergine, il decreto ministeriale 18/06/2014 prevede che debbano essere svolte due controanalisi dai panel di assaggiatori ufficiali (operanti nei laboratori Cra-Oli, laboratorio chimico regionale di Roma dell’Agenzia delle Dogane e nel laboratorio centrale di Roma dell’Icqrf). Insomma controprove che, al momento della diffusione della notizia sull’inchiesta partita da Torino che ha coinvolto sette note aziende produttrici, non erano state fatte.
«E poi possiamo parlare di truffa quando è noto che se la qualità dell’olio è ottima all’imbottigliamento una successiva gestione non corretta del prodotto può modificare quel livello di qualità? A partire dalle modalità di trasporto fino alla conservazione: si sa che l’olio non deve essere sottoposto alla luce o che il caldo o il freddo possono modificare le sue proprietà. E in caso di gestione scorretta…chi commette la truffa?».
E con l’inchiesta torna alla ribalta l’annosa polemica sulla validità del panel test come strumento di classificazione merceologica. La controversia si disputa tra chi sostiene si tratti di una valutazione sensoriale unica e non sostituibile da qualsiasi altro strumento o e chi, invece come Deoleo, la società che gestisce tre dei marchi coinvolti, la bolla come “un metodo di analisi soggettivo, non ripetibile e non riproducibile”.
«Il problema – prosegue Conte – non è tanto il panel, che è un metodo, quanto la necessità di individuare precisi standard di riferimento. Se, ad esempio, al test un olio presenta un certo difetto devo sapere quali sono le molecole che codificano quel segnale al mio cervello». E qui si scatenano le reazioni.
«Ben venga la predisposizione di standard, anche chimici, per l’addestramento dei panel e l’individuazione delle sostanze responsabili dei principali difetti degli oli vergini di oliva – commenta Barbara Alfei, capo panel Assam Marche.
«La chimica può intervenire a supporto dei panel, ma non in sostituzione. Nessuna strumentazione, nessuna analisi per quanto sofisticata, potrà mai sostituire il lavoro degli assaggiatori formati, selezionati e addestrati. Eppure il panel test è da anni uno dei tanti parametri previsti dalla normativa per la classificazione dell’olio come extravergine. Perché non ha la stessa dignità di tanti altri parametri chimici? Perché un olio è ritenuto lampante quando ha una acidità maggiore del 2%, e non quando ha una mediana del difetto maggiormente percepito maggiore di 3,5 e/o un fruttato pari a zero?».
«Ma forse il problema non è tanto il metodo – rincara la dose Alfei – quanto il commercio di tanti oli rispondenti alla categoria “extravergine” solo per i parametri chimici, ma in realtà non extravergini per la presenza di difetti più o meno gravi a livello sensoriale».
Tradotto: tanti sottopongono il prodotto solo ad analisi chimica e non al panel test, mentre per classificare un olio extravergine, la normativa prevede sia l’analisi sensoriale (quindi il panel), sia quella chimica (acidità, perossidi, costanti spettrofotometriche).