L’Italia dell’olio non può restare immobile

piano olivicolo
Una fotografia dell’obsolescenza dell’olivicoltura nazionale di fronte agli scenari internazionali, con strategie che ancora mancano o stentano a decollare per riconquistare una posizione di leadership

Il tempo non si è fermato solo a Eboli, come parafrasava lo scrittore Carlo Levi nel suo noto romanzo autobiografico scritto durante la seconda guerra mondiale. Sembra che si sia fermato anche tra gli olivi della penisola. Olivi imperterriti, maestosi, vigili come guardiani, a simboleggiare con fierezza quella tradizione che incarnano e che affonda le sue radici su un territorio che invece è mutato, si è trasformato nel tempo ma che non è stato capace di trascinarsi dietro i suoi guardiani. L’olivo ha fatto da sempre dell’immutabilità la propria forza, in contrasto e se vogliamo, in controtendenza con una società che invece è da sempre in fermento e nella ricerca di nuove forme di esistenza. Gli olivi non avevano mai conosciuto l’obsolescenza. Per centinaia di anni nessuno si era mai posto il problema che quel paesaggio così bello, con la sua armonia e le sue consociazioni vegetali, sempre diverse da territorio a territorio, ma accomunati da quella maestosa presenza, potesse un giorno segnare il passo, diventare obsoleto.

In realtà l’obsolescenza è figlia dei tempi moderni, conseguenza della crescente tendenza al rinnovo degli impianti e alla messa a dimora di giovani piantine, sempre più vicine le une alle altre, particolarmente di moda nella vicina e concorrente Spagna. Nella moderna economia globale, dove la circolazione delle merci è sempre più libera e rapida, siamo condannati a informarci su quello che fanno i nostri concorrenti, non tanto per imitarli, quanto per correggere l’impatto negativo delle loro scelte sulla nostra economia.

È qui che nasce l’obsolescenza del patrimonio olivicolo nazionale, soprattutto nei numerosi areali della penisola dove le produzioni si trovano a competere nella stessa arena competitiva degli oli di oliva provenienti dall’estero, ottenuti da oliveti moderni, molto produttivi ed economicamente efficienti. Non ci sono alternative se non quella di differenziare i nostri extravergini così tanto da cambiarne l’arena competitiva e fin quando questo non sarà fatto, fin quando saranno scambiati e confrontati con gli altri oli internazionali, il prezzo degli extravergini italiani sarà sempre influenzato dalle produzioni estere più efficienti. Mettiamoci l’anima in pace.

Piano olivicolo, dal 1999 a oggi

C’era piena coscienza già venti anni fa che l’olivicoltura italiana aveva bisogno di un rinnovamento. Il piano olivicolo era già nelle promesse dei politici del momento, segno di una forte attesa da parte delle organizzazioni di produttori. Alla quinta edizione del Sol nel 1999, il sottosegretario Fusillo aveva pubblicamente annunciato l’imminente varo del piano olivicolo entro la fine dell’anno e da allora sono passati molti lustri prima che un primo piano prendesse luce e tuttora mancano all’appello una larga parte dei 30 milioni di euro di investimento che sono stati stanziati. Tra l’altro una quantità irrisoria rispetto al fabbisogno di rinnovamento.

Questa debole capacità di reagire a quanto appariva chiarissimo già venti anni fa a tutti i protagonisti della filiera e alle stesse istituzioni, ha segnato un ritardo cruciale rispetto alle realtà concorrenti. L’innovazione è un’arma efficace solo se viene mantenuta viva perché si dà per assodato che i followers, come vengono chiamati dagli addetti ai lavori, sono sempre alle calcagna alla ricerca di un varco per passare in avanti, come avvenuto con la Spagna e che potrebbe avvenire tra non molto con altri paesi come il Portogallo, la Tunisia e la Turchia. Già venti anni fa era chiaro tra gli addetti ai lavori che i nuovi paesi produttori dell’emisfero australe sarebbero entrati gradualmente nel settore olivicolo applicando le più innovative tecnologie sperimentate in Europa per produrre oli extravergini di qualità superiore. Qualcuno ipotizzò all’epoca addirittura che questi paesi avrebbero avviato campagne contro frodi e sofisticazioni in difesa della genuinità e degli extravergini di alta qualità, per distinguerli dalla vasta platea di oli europei al limite della categoria. Ahimè, non ce n’è stato bisogno. L’Italia, da esperta autolesionista ha pensato bene che in tema di frodi convenisse autodenunciarsi.

L’articolo completo di dati statisti e grafici è pubblicato
sullo Speciale 20 anni di Olivo e Olio

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L’Italia dell’olio non può restare immobile - Ultima modifica: 2018-11-15T17:00:10+01:00 da Barbara Gamberini

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