Ancora oggi la pratica più comune di gestione del suolo negli oliveti è la lavorazione periodica, tipicamente un’erpicatura o fresatura, che elimina le infestanti e consente di ridurre l’evaporazione dell’acqua del suolo, aumentando la rugosità della superficie. Tuttavia, la lavorazione convenzionale comporta molti effetti indesiderati sulle proprietà fisiche, chimiche e biologiche del suolo e ne può peggiorare la struttura e fertilità.
A seconda della tecnica di lavorazione del terreno, delle caratteristiche del suolo e del clima, gli effetti della lavorazione periodica possono essere differenti. Nel lungo periodo, si può verificare scarsa aggregazione del suolo, ridotta porosità e/o aumento della proporzione di micropori, scarsa ritenzione idrica e una riduzione del carbonio organico nel suolo. Questi effetti negativi si riflettono a loro volta in un maggiore rischio di erosione del suolo, maggiore predisposizione del suolo alla compattazione o alla formazione di croste superficiali, diminuzione dell’attività e della diversità biologica del suolo e diversità, minore disponibilità di acqua e sostanze nutritive e maggiore emissione di CO2 nell’atmosfera.
L’uso di coperture vegetali è attualmente consigliato per proteggere il suolo nella gestione dell’oliveto, così come avviene anche in altre tipologie di frutteto. La presenza di una copertura viva non solo ha effetti benefici sulle proprietà del suolo, ma determina anche una migliore fertilità biochimica e maggiore biomassa e diversità microbica rispetto ai terreni lavorati. L’inerbimento permanente diminuisce l’erosione e la compattazione ed aumenta l’infiltrazione dell’acqua e l’accumulo di sostanza organica nel profilo. Tuttavia, un prato permanente su tutta la superficie del terreno compete con le radici degli alberi per l’acqua ed elementi nutritivi e può ridurre la crescita e la produttività degli alberi.
Inerbimento o lavorazione?
Il bilancio tra gli effetti benefici dell’inerbimento e quelli di competizione con la coltura può essere valutato solo sul lungo termine, pertanto gli studi di comparazione dei due sistemi di gestione del terreno, inerbimento e lavorazione, richiedono molti anni di sperimentazione. Tale tipo di sperimentazione è stata condotta in un oliveto (Olea europaea L. cv. Frantoio) ad alta densità (513 alberi/ha) piantato nel 2003 presso i campi sperimentali dell’Università di Pisa (Venturina, LI), dove sono state confrontate due tesi: LP, lavorazione periodica superficiale con erpice a coltelli; IP, inerbimento permanente sfalciato periodicamente.
Successivamente le tesi sono state mantenute con 3-4 interventi all’anno. Entrambe le tesi hanno ricevuto la stessa quantità di acqua tramite un sistema di sub-irrigazione a partire dall’impianto.
I dati produttivi delle parcelle sperimentali e la qualità degli oli prodotti con microfrangiture sono stati rilevati dal 2006 al 2013. Le caratteristiche dell’olio sono state misurate su campioni ottenuti da circa 5 kg di olive ad albero. Per indagare sullo sviluppo dell’apparato radicale, sulle caratteristiche fisiche e biologiche del suolo a diverse profondità sono stati effettuati carotaggi in diversi punti dell’oliveto e scavate delle trincee nell’interfila 5 e 10 anni dopo l’inizio della diversa gestione.
Produttività e qualità dell’olio
Nel primo quadriennio dall’inizio della differenziazione della gestione del suolo (dal 3° al 6° anno dall’impianto) la produzione di frutti degli alberi su suolo inerbito è stata inferiore rispetto a quella della tesi lavorata. La presenza di una copertura vegetale in competizione con lo sviluppo degli alberi ha ridotto il volume della chioma nella tesi inerbita e, conseguentemente, anche il numero di frutti portati dagli alberi. Tuttavia, l’efficienza produttiva, cioè la produzione ad albero rapportata alle sue dimensioni (espressa come area della sezione trasversale del fusto), non è stata diversa tra le due tesi di gestione del suolo. In particolare, gli alberi della tesi inerbita hanno presentato un’efficienza produttiva compresa tra l’80 e il 120% rispetto a quella della tesi sottoposta a lavorazione periodica. Inoltre, sono state osservate differenze sui frutti degli alberi su suolo lavorato che avevano minori dimensioni e un leggero ritardo di maturazione rispetto ai frutti degli alberi della tesi inerbita. Per quanto concerne la qualità dell’olio non sono state riscontrate differenze significative tra le due tesi per l’acidità libera, il numero di perossidi, le costanti spettrofotometriche degli oli prodotti, e le concentrazioni di polifenoli totali e orto-difenoli.
Effetti sul suolo
Al contrario di quanto osservato per i parametri produttivi e qualitativi dell’oliveto, le caratteristiche fisiche del suolo sono state influenzate marcatamente dalla tecnica di gestione del terreno. In particolare, la macroporosità dello strato superficiale (0-0,10 m), parametro che indica una maggiore facilità di infiltrazione di acqua e un ridotto rischio di perdite per ruscellamento, è stata più elevata nella tesi inerbita che in quella lavorata con valori pari a circa il doppio rispetto a quest’ultima. I bassi valori di macroporosità misurati su suolo lavorato, dovuti alla formazione di una crosta superficiale, hanno comportato anche una riduzione del tasso di infiltrazione dell’acqua nella tesi lavorata, circa otto volte inferiore rispetto a quella misurata sul suolo inerbito. Ciò è stato probabilmente dovuto alla protezione esercitata dalla copertura vegetale che ha diminuto la distruzione meccanica degli aggregati della superficie del terreno ad opera dell’azione battente della pioggia, preservando la continuità dei pori allungati.
Gli olivi sono sensibili a condizioni di asfissia radicale, anche a causa del loro carattere sempreverde, che influiscono negativamente sulla crescita e sulla produttività.
Il numero crescente di eventi di precipitazione di elevata intensità esaspera il problema della crosta superficiale e compattazione nei suoli lavorati. Con la presenza di crosta superficiale nella tesi lavorata anche eventi di moderata intensità (3-15 mm/h) sono in grado di causare ristagno di acqua. Infine, le differenze nella velocità di infiltrazione tra le tesi lavorata e inerbita furono molto elevate probabilmente anche per aver misurato l’infiltrazione solo nell’interfila. Si noti comunque che negli oliveti l’infiltrazione dell’acqua sotto la chioma è molto superiore a quella nell’interfila. Il tasso di infiltrazione dell’acqua della tesi inerbita raggiunse valori standard (20-30 mm/h) per suoli franco-sabbiosi, mentre nella tesi lavorata i valori furono bassissimi (circa 8 volte inferiore rispetto al suolo inerbito).
Ripercussioni sullo sviluppo radicale
La densità radicale degli olivi (diametro della radice inferiore a 5 mm) è risultata simile indipendentemente dalla gestione del suolo. Inoltre, non è stata riscontrata nessuna interazione significativa tra la gestione del suolo e la profondità di campionamento delle radici (v. tabella).
La densità totale della radice, espressa come peso secco, è stata di 4,79 e 4,38 kg /m3 di terreno per gli olivi coltivati su suolo lavorato ed inerbito, rispettivamente (somma delle tre classi di densità. La profondità del suolo ha influenzato in modo significativo la densità della radice: il valore più alto (5,43 kg/m3) è stato misurato a 0,2 m di profondità, mentre nessuna differenza tra le due tecniche sperimentate (4,2 kg/m3) è stata trovata tra gli strati di profondità 0,4 e 0,6 m.
Nello studio in questione la lavorazione del terreno ha influenzato negativamente l’attività dei funghi micorrizici arbuscolari (Amf) ad entrambe le profondità del suolo, inducendo una diminuzione della colonizzazione micorrizica. Le radici degli olivi su suolo inerbito ad una profondità di 0,3 m hanno presentato una maggiore colonizzazione rispetto a quelle degli olivi su suolo lavorato. Ad una profondità di 0,6 m la percentuale di colonizzazione micorrizica era, invece, simile per le due tesi.
Per quanto riguarda la copertura vegetale nella tesi inerbita, è importante riportare che la biomassa prodotta ogni anno dal prato naturale, espressa in peso secco, è stata di 4,2 t/ha, corrispondente a circa 1,6 t/ha di carbonio stoccato nell’oliveto inerbito.
Vantaggi e limiti dell’inerbimento
I vantaggi principali dell’inerbimento consistono nella possibilità di migliorare la caratteristiche del suolo mantenendo elevati i livelli produttivi e qualitativi dell’oliveto. La presenza di un prato stabile determina il mantenimento, e nel lungo termine un probabile incremento, della sostanza organica, che si mineralizza più lentamente che in suolo lavorato, e contribuisce al miglioramento delle proprietà fisiche (porosità, struttura degli aggregati) nonché della fertilità chimica. La presenza del cotico erboso facilita anche le operazioni colturali aumentando la portanza del terreno e migliorando la transitabilità nell’oliveto durante i periodi di precipitazioni frequenti e abbondanti.
Tuttavia la sua applicazione è condizionata da alcuni fattori, in primo luogo dalla competizione idrica-nutrizionale con l’albero. Pertanto, la scelta del tipo di inerbimento da utilizzare deve essere effettuata ponendo particolare attenzione alle condizioni pedoclimatiche della zona in cui si opera.
Nelle zone in cui la distribuzione delle piogge è pressoché uniforme durante tutto l’anno, o si dispone di un impianto di irrigazione, si può ricorrere all’inerbimento totale e permanente. Invece, in condizioni di carenza idrica prolungata è opportuno utilizzare l’inerbimento parziale o temporaneo. Negli ambienti centro-meridionali, caratterizzati da estati lunghe e siccitose, si può ricorrere all’inerbimento artificiale con specie erbacee che disseccano e si autodisseminano al sopraggiungere dei primi caldi intensi. Tali specie, come il Bromus catharticus e il Trifolium subterraneum compiono il loro ciclo durante il periodo umido dell’anno, quando cioè le esigenze idriche dell’olivo sono ridotte e sono elevati i rischi di erosione e di compattazione per il passaggio delle macchine.
Tuttavia, a causa dei possibili effetti negativi sulla crescita vegetativa dell’olivo è opportuno evitare un insediamento troppo precoce del prato. Quindi, l’inerbimento, anche in condizioni irrigue, dovrebbe essere iniziato a partire dal terzo o quarto anno dall’impianto. In alternativa, si può optare per un inerbimento parziale e/o temporaneo, avendo cura di limitare la crescita delle infestanti in prossimità delle giovani radici degli alberi.
Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali, Università di Pisa
L’articolo è disponibile per i nostri abbonati su Olivo e Olio n. 4/2018
Sfoglia l’edicola digitale e scopri le diverse formule di abbonamento a Olivo e Olio
Consigli utili per praticare l’inerbimento nell’oliveto
- Nei primi 3-4 anni dall’impianto non è consigliabile l’inerbimento permanente su tutta la superficie dell’oliveto per la diminuzione di crescita dei giovani olivi in allevamento.
- A partire dal terzo anno, quando gli olivi hanno raggiunto uno sviluppo adeguato, si può lasciare inerbire l’interfila in modo spontaneo. In suoli molto degradati, in cui la banca seme iniziale è scarsa, si può procedere con delle semine controllate.
- La copertura vegetale deve essere sfalciata almeno tre volte all’anno, a inizio primavera, prima dell’inizio della stagione secca e prima della raccolta.
Quando è consigliabile la lavorazione del suolo
- La lavorazione del suolo risulta necessaria per l’interramento dei concimi minerali e organici, incluso i materiali derivanti dal sovescio e dai residui della potatura.
- In condizioni molto aride la lavorazione elimina anche gli apparati radicali delle infestanti e quindi riduce la competizione
- tra gli olivi e la flora spontanea.
- Alcuni patogeni animali e vegetali svolgono parte del loro ciclo sulla vegetazione spontanea e in alcune circostanze è necessario rimuovere la copertura vegetale mediante lavorazione del suolo.
- In alcuni casi la lavorazione è preferita anche per prevenire i rischi di incendio.
Micorrize e fertilità del suolo
I microrganismi del suolo svolgono un ruolo chiave nella fertilità del suolo e nella nutrizione delle piante, rappresentando i componenti fondamentali per il completamento dei cicli biogeochimici, il controllo biologico dei patogeni vegetali, e, indirettamente, per azione sulla sostanza organica, il miglioramento della struttura del suolo. I funghi micorrizici arbuscolari (Amf) sono microrganismi benefici che vivono simbioticamente nel sistema radicale di circa l’80% delle specie vegetali fornendo nutrienti minerali in cambio di carboidrati. Le micorrize sono in grado di assorbire e traslocare i nutrienti del suolo alle loro piante ospiti attraverso un ampio sistema ifale extra-radicale, che si estende dalle radici colonizzate all’ambiente circostante e contribuisce a fornire servizi importanti biofertilizzanti e bioenergizzanti. Si è visto, infatti, che l’impiego di coperture vegetali, l’attuale pratica raccomandata per la gestione interfilare nei frutteti, sostiene e potenzia i simbionti Amf nativi, incidendo positivamente sul potenziale del suolo micorrizico e sulla crescita delle colture. Le micorrize vengono oggi utilizzate anche nel vivaismo olivicolo per gli effetti positivi sulla crescita delle piante e la conseguente riduzione dei tempi di produzione.