Valle Benuara, olivicoltura che cresce tra le valli trapanesi

olio biologico valle benuara
Parte dell’impianto olivicolo di Fulgatore.
La conversione al biologico e l’adesione alla Dop sono stati i primi passi dell’azienda Valle Benuara per valorizzare la produzione soprattutto sui mercati esteri

Siamo a Fulgatore, nelle valli trapanesi per conoscere Valle Benuara, una giovane azienda agrituristica che produce vino e olio. Una realtà ancora in crescita, in un territorio di grande rinomanza per la produzione olivicola di qualità. In questa azienda si è scommesso sulla produzione biologica e sull’identità territoriale sotto la guida della titolare Margherita Scognamillo che ha condiviso con noi la sua esperienza aziendale e le prospettive future.

Margherita Scognamillo
Margherita Scognamillo, titolare dell’azienda Valle Benuara.

Ci faccia un breve inquadramento dell’azienda, partendo dalla sua storia all’attuale organizzazione produttiva.
«La proprietà aziendale fa parte di un antico feudo che, a seguito della riforma agraria, è stato frazionato. All’interno del feudo sono sorte, nel periodo fascista, una decina di case coloniche, poi abbandonate. Ad oggi, l’unica di queste case coloniche che è stata ristrutturata è quella della nostra azienda; lo abbiamo fatto nel 2003, quando io e mio marito abbiamo ereditato l’azienda da mio suocero, trasformandola in una struttura ricettiva.

Oggi sono io ad occuparmi della gestione dell’impresa, mentre per la parte tecnica mi assistono due dipendenti, e vi collabora anche mio marito Francesco.

La nostra azienda si estende all’incirca su una ventina di ettari, la maggior parte investiti in vigneti di alta qualità (produciamo per una grande cantina del nostro territorio). Abbiamo poi circa 1000 piante di olivo e due ettari di melograneto.

Siamo un agriturismo, pertanto abbiamo anche delle piccole superfici dedicate all’orto, un piccolo agrumeto e un frutteto, dedicati all’autoconsumo dell’agriturismo».

Come sono strutturati e gestiti i vostri oliveti? «Abbiamo all’incirca 300 alberi secolari in un antico oliveto, e un impianto più recente che fa parte del corpo aziendale. È un impianto di tipo tradizionale, allevato a vaso a un sesto di 5x5 m, con piante pienamente produttive che oggi hanno una quindicina di anni.

L’oliveto secolare nella zona di Lenzi.

Nel 2010 abbiamo scelto di convertire la gestione dell’azienda al biologico: sul biologico la Sicilia ha delle carte da giocare, perché il clima asciutto che caratterizza le aree olivicole dell’Isola, consente, di norma, di poter controllare la mosca e altre avversità con strategie alternative ai trattamenti convenzionali. Il passaggio all’agricoltura biologica è stato faticoso, il riconoscimento dop è arrivato nel 2013 e oggi, abbiamo produzioni che ci danno molta soddisfazione».

Quali sono le cultivar presenti nei vostri oliveti? «Nei nostri oliveti si trovano le tre cultivar che costituiscono la Dop Valli Trapanesi, denominazione a cui abbiamo aderito, che sono la Cerasuola, la Biancolilla e la Nocellara del Belice. Sono, quindi, tre varietà caratteristiche e adattate alla coltivazione in questo territorio. Sia Nocellara, molto aromatica, sia Biancolilla che dà un olio molto delicato e meno fruttato, producono oli che possono risultare poco ricchi di antiossidanti e quindi stabili nel tempo. Tuttavia il blend con la Cerasuola, presente nella Dop al 60%, che da oli molto fruttati e persistenti, consente di ottenere oli stabili, soprattutto negli aromi, per almeno 24 mesi quando ben conservati».

Che tipo di extravergine producete e per quale mercato?
«Al momento produciamo un blend, seguendo le percentuali previste dalla Dop per le tre cultivar, ovviamente con la certificazione biologica. Il nostro prodotto si colloca su un livello medio-alto del mercato, almeno per l’olio siciliano, con un prezzo di circa 16 euro al litro. Confezioniamo soprattutto in bottiglia da mezzo litro, per incontrare il consumo casalingo e quello della ristorazione, ma facciamo anche le lattine da 3 e da 5 litri (da 30 - 50 euro), anche per la ristorazione».

In termini di innovazione e modernizzazione degli impianti quali sono stati gli interventi che avete ritenuto di introdurre in azienda?
«Per quanto riguarda l’oliveto, l’innovazione è stata principalmente sul sesto, che abbiamo ridotto dal tradizionale 6x6 al 5x5; questo ci ha consentito anche di avere una produzione per ettaro leggermente più alta e di introdurre un certo grado di meccanizzazione. Oltre alla gestione meccanica del terreno e degli eventuali interventi fitosanitari, anche la raccolta è parzialmente meccanizzata. Utilizziamo degli abbacchiatori pneumatici collegati al trattore, mentre è rimasta la parte manuale della raccolta che consiste nella stesura delle reti e nel convogliamento delle olive.

Il Consorzio Oleum Sicilia aderisce al programma Unaprol.

Per quanto riguarda l’innovazione della nostra parte olivicola, dopo l’ingresso nella Op Oleum Sicilia, stiamo partecipando ad alcuni progetti di qualità. Nel nostro oliveto Oleum conduce alcune attività sperimentali, in particolare per la difesa fitosanitaria e per il monitoraggio della mosca».

Quale forma di allevamento avete adottato?
«L’oliveto è impostato come vaso aperto (o vaso belicino), che è una forma tipicamente siciliana e, in particolare, della parte occidentale dell’Isola. Viene ottenuta mediante una potatura che chiamiamo “a braccio” e che riteniamo operativamente più semplice: la pianta viene potata dall’alto, cercando di aprire le branche verso l’esterno. Abbiamo valutato l’alternativa del vaso policonico, che si adatta bene alla raccolta meccanizzata con scuotitore al tronco ma meno alle nostre esigenze di gestione delle operazioni».

Come gestite la fase di lavorazione delle olive?
«Utilizziamo un frantoio sul territorio di cui ci fidiamo; non abbiamo una quantità di molitura tale da giustificare economicamente la realizzazione di un impianto aziendale, che implica anche l’introduzione di una struttura dedicata. Il frantoio a cui conferiamo le olive riesce a darci una tracciabilità del prodotto molto attenta e dettagliata, e ci garantisce un livello qualitativo che ci soddisfa, attraverso una lavorazione a temperatura controllata».

Per quanto riguarda le prospettive future, quali aspetti intendete rafforzare? Avete previsto nuovi investimenti?
«Quest’anno siamo partiti con un investimento importante per l’internazionalizzazione dei prodotti, che viene curata da una agenzia esterna che si occupa della commercializzazione. Sulla comunicazione, stiamo lavorando con un’altra agenzia per sviluppare il nostro sito web, su cui progettiamo di aggiungere la parte di e-commerce, e per potenziare il marketing con apposite strategie sui diversi social network.

Sempre durante quest’anno abbiamo lavorato sul packaging, con la realizzazione delle etichette e la scelta delle bottiglie: sono stati dei passaggi obbligati che abbiamo dovuto fare perché noi crediamo sia importante portare il prodotto all’estero. In Italia abbiamo una grande concorrenza, come quella degli oli pugliesi; all’estero, il brand Sicilia ha ancora molti spazi di espansione potenziale, anche perché all’estero il brand Sicilia è molto apprezzato, credo che venga conosciuto solo dopo l’olio toscano. Noi abbiamo fatto un prodotto di nicchia con un target ben preciso medio-alto e, quindi, abbiamo deciso di puntare sul mercato medio-alto della Germania, Austria, Svizzera e parte della Francia.

Abbiamo fatto questa scelta verso l’estero, piazzare il prodotto localmente è difficilissimo, perché nel nostro territorio c’è molto autoconsumo e un mercato, quindi, piuttosto ridotto.

Nella grande distribuzione c’è una concorrenza spietata sul prezzo in cui non riteniamo di poter proporre il nostro prodotto».

Una sintesi sulla tua esperienza di imprenditrice agricola?
«Mi preme portare una testimonianza come donna all’interno del mondo agricolo siciliano. Faccio parte del movimento Donna Impresa di Coldiretti. Una associazione che consente un sostegno reciproco nell’imprenditoria femminile, per riuscire a portare avanti l’agricoltura innovativa in un contesto socio-culturale spesso poco accogliente, rispetto a quello che, diciamo, è l’impatto della femminilità all’interno di un ruolo aziendale.

È stata una lotta dura, ma devo dire che, adesso, assaporo sempre di più sia i risultati, che un po’ alla volta stanno arrivando, sia anche il fatto di essere riconosciuta per il mio ruolo all’interno dell’azienda. È difficile, ma ce la stiamo facendo».

L’articolo è pubblicato su Olivo e Olio n. 6/2020

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Le foto in campo sono di Barbara Gamberini.

Valle Benuara, olivicoltura che cresce tra le valli trapanesi - Ultima modifica: 2020-11-18T10:37:16+01:00 da Barbara Gamberini

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