Mentalità imprenditoriale, mentalità frutticola e assistenza tecnica specializzata. Per Salvatore Camposeo, docente associato di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree presso l’Università di Bari, sono i tre cardini su cui il comparto olivicolo italiano potrà impostare il proprio futuro se saprà disancorarsi dal peso della tradizione culturale e cogliere le opportunità offerte dal progresso tecnico-scientifico. È quanto ha sostenuto in occasione del webinar “L’olivicoltura ad alta densità e superintensiva” organizzato da Fruit Communication con il patrocinio dell’Associazione regionale pugliese tecnici e ricercatori in agricoltura (Arptra).
L’olivicoltura superintensiva è moderna frutticoltura
«Il progresso delle conoscenze tecnico-scientifiche consente agli olivicoltori professionali di condurre impianti razionali e ad alta sostenibilità, sulla base dei pilastri fondanti della moderna frutticoltura; l’olivo, infatti, va considerato come una specie arborea da frutto, al pari delle altre.
Per far questo, sono necessari e sufficienti tre requisiti: mentalità imprenditoriale, mentalità frutticola e assistenza tecnica specializzata. Facendo leva su essi l’olivicoltura da reddito, cioè quella capace di produrre ricchezza e occupazione, potrà affrontare con successo tutte le minacce che rischiano seriamente di comprometterne la sopravvivenza e cogliere le opportunità che, malgrado tutto, si stanno aprendo a un comparto dalle enormi potenzialità commerciali».
L’Università di Bari prima in Italia per il superintensivo
Del tema dell’olivicoltura superintensiva in Puglia ha iniziato a parlare, ha ricordato Camposeo, il professor Angelo Godini della Facoltà di Agraria di Bari, «il quale già 20 anni fa sosteneva che si tratta di un argomento nuovo e dirompente, che tuttavia è forse bene che si cominci a prendere in considerazione, affinché l’olivo non faccia la stessa fine del mandorlo. Grazie all’impulso di Godini e del professor Francesco Bellomo, dopo alcuni viaggi in Spagna, l’Università di Bari per prima in Italia ha studiato e valutato l’olivicoltura superintensiva, realizzando alcuni impianti sperimentali, nel 2001 a Cerignola, nel 2002 a Cassano delle Murge e nel 2006 a Valenzano. In quest’ultimo campo sperimentale sono ancora in osservazione 15 cultivar della piattaforma varietale italiana e straniera. Si trattava di impianti superintensivi di prima generazione ad asse centrale (SHD 1.0). Sono del 2012 i primi impianti superintensivi di seconda generazione o Smarttree®, caratterizzati da una forma di allevamento sempre in volume ma più libera e con utilizzo più contenuto di pali e fili. Risalgono al 2017 la prima varietà per superintensivo con parentali italiani, Lecciana®, al 2021 la seconda, Olidia®».
Che cosa è l’olivicoltura superintensiva?
Ma che cosa è l’olivicoltura superintensiva? Camposeo ha voluto spiegarlo «perché dopo 20 anni qualcuno la confonde ancora con altro. Il superintensivo fa parte dei sistemi colturali ad altissima densità, caratterizzati da densità di impianto di 1.200-2.000 alberi/ha, forme di allevamento in volume (SHD 1.0 e SHD 2.0), entrata in produzione precoce, alternanza di produzione molto attenuata, meccanizzazione di tutte le operazioni colturali, ma soprattutto dalla formazione di una parete produttiva e dalla raccolta in continuo con macchina scavallatrice. Il tempo di raccolta di un oliveto superintensivo con scavallatrice è pari a 2 h/ha, mentre per impianti intensivi con scuotitore è di 18 h/ha. Quindi è un sistema colturale ad altissima meccanizzazione e ad altissima produttività del lavoro umano. Un oliveto superintensivo viene gestito con una spesa annua di circa 2.000 €/ha, con un peso sul chilogrammo di olio extravergine di oliva di 1,5 €, mentre i costi colturali sono ridotti a circa la metà di quelli da sopportare per un oliveto intensivo o a media densità».
La scelta varietale, cruciale per il superintensivo
La variabile economica cruciali del superintensivo, oltre alla gestione della chioma, cioè la potatura, è la scelta varietale, ha sottolineato Camposeo. «La varietà fa il successo dell’olivicoltura superintensiva. Senza la varietà adatta non si può fare innovazione e, a sua volta, l’innovazione non si può fare con le varietà tradizionali. Eppure l’attuale sostegno all’olivicoltura con i 30 milioni di euro che la Legge di bilancio 2021 ha messo a disposizione della filiera impone ancora oggi le varietà italiane. È una scelta antistorica e antiscientifica, perché le varietà veramente italiane sono una o forse due. Tutte le altre sono di presunta origine italiana. Fino al 2010 le varietà per il superintensivo erano essenzialmente due: l’Arbequina (85%) e l’Arbosana (10%). Oggi l’offerta varietale è molto più ampia. L’Arbequina conta il 34% della superficie a superintensivo in Italia, seguita da Oliana (19%) e Arbosana (12%), mentre il miglioramento genetico ha portato, attraverso l’incrocio controllato, alla brevettazione di nuove cultivar, tutte a bassa vigoria, quindi ideali per il superintensivo. La Lecciana® (17%), che ha Arbosana come parentale materno e Leccino come parentale paterno, ha preso i punti di forza di entrambe, la riduzione della vigoria, l’entrata in produzione al secondo anno e la grande qualità dell’olio. La Olidia®, che ha Arbosana come parentale materno e Koroneiki come parentale paterno, si apprezza per la vigoria bassa, l’elevata fertilità e l’eccezionale profilo organolettico degli oli».
Il superintensivo italiano produce olio made in Italy
In Italia il superintensivo è in rapida crescita, ha concluso Camposeo. «Gli oltre 5.000 ettari sono stati raggiunti con impianti realizzati negli ultimi 10 anni, dopo le iniziali titubanze degli imprenditori olivicoli. E si tratta di un superintensivo made in Italy, perché il Dm del 10 novembre 2009 stabilisce che è un olio made in Italy quello che viene estratto da olive coltivate in Italia, indipendentemente dalla cultivar».