Il fenomeno dell’abbandono colturale è di particolare interesse per l’olivicoltura, dato che essa occupa principalmente territori di collina non irrigui, spesso soggetti a gravi limitazioni fisiche (profondità del suolo, altimetria, pendenze) a cui si associano problematiche sociali (invecchiamento della popolazione calo demografico) e strutturali (mancata ricomposizione fondiaria, scomparsa dell’allevamento ovino estensivo associato ad ordinamenti promiscui). Secondo il recente studio del 2020 “The challenge of land abandonment after 2020 and options for mitigating measures” (studio per il Parlamento Europeo del Dipartimento per le Politiche Strutturali e di Coesione della Commissione Europea), il rischio di abbandono colturale si proietta, ulteriormente, almeno fino al 2050 per notevoli superfici in tutti i Paesi UE. L’abbandono non è un problema peculiare della sola filiera olivicola, visto che colpisce con varia intensità, tutte le agricolture delle aree interne.
Frammentazione e mancato adattamento strutturale
Nel caso dell’olivicoltura l’abbandono viene, però, accentuato dal ruolo che esercita la frammentazione sul mancato subentro nell’esercizio dell’attività agricola. La dimensione aziendale, infatti, è il principale fattore nel determinare il subentro di un conduttore nelle aziende con successore, ma ancor più nel caso di aziende senza successore.
Le numerose indagini disponibili in letteratura attestano che la ristrutturazione intervenuta nell’agricoltura italiana negli ultimi decenni ha inciso sulla imponente riduzione del numero di aziende, più che sulla riduzione della superficie utilizzata, avvalorando il ruolo della scala aziendale quale principale fattore di adattamento.
Si tratta di dinamiche ben note e che proiettano i loro effetti sui prossimi decenni, nei quali sono attese ulteriori e significative perdite di aziende e di SAU olivetata, senza che la valutazione del rischio di abbandono abbia avuto adeguata misura e riscontro, anche a causa del suo carattere multifattoriale, che non può essere affrontato con le sole politiche verticali di filiera.
In sede censuaria ne sono stati ratificati gli esiti, per intervalli decennali, anche se il processo di abbandono dell’olivicoltura ha oramai dimensione storica, frutto delle profonde trasformazioni sociali che hanno radicalmente modificato la struttura produttiva del Paese nel XX secolo.
Una rapida disamina degli annuari statistici disponibili nella biblioteca digitale ISTAT permette di rinvenire il picco storico della produzione nazionale di produzione nazionale di olive con quasi 21 milioni di tonnellate nel 1960 ed una produzione di olio di circa tre milioni di tonnellate a fronte di una media di 0,4 milioni di tonnellate registrata nell’ultimo decennio, minimo storico pesantemente condizionato dalla Xylella e dai reiterati fenomeni climatici avversi.
Le statistiche relative al periodo tra il 1950 ed il 1960 ci informano che la superficie complessiva è cresciuta fino al 1960, quando si annoveravano 960.000 ha in coltura specializzata e 1.395.000 ha in coltura promiscua, per calare poi costantemente nell’arco di 60 anni fino ai 994.320 ettari di SAU censiti nel 2020 (grafico 1) su 1,12 milioni di ettari di SAT, a loro volta distribuiti tra 619.378 aziende. (...)
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