L’olivicoltura pugliese non soffre soltanto dell’emergenza causata dal complesso del disseccamento rapido dell’olivo, ma anche di malattie già note e riemerse negli ultimi anni, come la lebbra e la verticilliosi. Lo ha riferito Giovanni Paolo Martelli, ex docente di Scienze del suolo dell’Università di Bari, in occasione del 3° convegno nazionale dell’olivo e dell’olio 2015 organizzato da Università di Bari, gruppo di lavoro olivo e olio della Soi e Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio. E lo conferma Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso il Disspa.
Il CoDiRo
All’esterno disseccamenti sia fogliari nella parte apicale e/o marginale sia, casuali e rapidi, di rami isolati o intere branche, come se avessero subito un colpo apoplettico e fossero collassate all’improvviso, estesi persino all’intera chioma, fino alla morte in apparenza fulminea degli olivi. All’interno estesi imbrunimenti a carico di legno, floema e xilema d’annata, evidenti a diversi livelli dei rami più giovani, delle branche e del fusto con occlusione dei vasi linfatici della pianta. Sono i sintomi, spiega Martelli, della grave malattia chiamata Complesso del disseccamento rapido dell’olivo (Codiro), che nel 2013 aveva colpito gli olivi intorno alla baia di Gallipoli (Le) e dopo si è estesa all’intera provincia di Lecce, affacciandosi poi in quella di Brindisi.
«A tale complesso sono associati il lepidottero noto come rodilegno giallo (Zeuzera pyrina), i funghi patogeni lignicoli appartenenti a diversi generi (Phaeoacremonium spp. e Phaeomoniella spp.) e il batterio Xylella fastidiosa, patogeno da quarantena e agente primario della malattia con una vastissima gamma di ospiti, il cui ritrovamento su olivi e altre specie, coltivate e spontanee, sta creando molti problemi per la gestione di tale emergenza fitosanitaria».
In natura di X. fastidiosa si conoscono quattro sottospecie con diversa origine geografica e patogenicità, continua Martelli. «Quella presente nel Salento è Xylella fastidiosa subspecie pauca ceppo Codiro. Il batterio vive all’interno dei vasi legnosi delle piante infette da cui viene acquisito da insetti che lo diffondono. Allo stato attuale l’unica specie, diffusa nelle aree infette del Salento, per la quale è stata dimostrata la capacità di trasmettere il batterio è Philaenus spumarius, insetto appartenente ai Rincoti Omotteri, noto come “sputacchina media” per la schiuma bianca, simile a saliva, in cui vivono immerse le sue forme giovanili. La lotta alla sputacchina è fondamentale per il contenimento della presenza del batterio entro una soglia di assenza di danno reale per gli olivi».
Il ritorno della lebbra
«La lebbra delle olive è una grave malattia dell’olivo tristemente nota in Puglia fin dalla metà del XX secolo e da alcuni anni riemergente – afferma Nigro –. Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 vennero segnalate per la prima volta gravi manifestazioni epidemiche in alcuni oliveti delle province di Lecce e di Brindisi. Dopo, la malattia sembrò quasi scomparire, in realtà era presente ma senza ritornare ai precedenti livelli di gravità. È riesplosa sempre nello stesso areale verso la fine degli anni ’80, rimanendo circoscritta nell’areale originario, poi si è nuovamente quietata».
Da una diecina d’anni la malattia è riemersa, ma ampliando l’areale, «cioè diffondendosi in quasi tutto il Leccese, presentandosi nel Tarantino fino a Manduria, Grottaglie e Massafra e nel Brindisino da Francavilla Fontana a Ceglie Messapica, Ostuni e Fasano, fino ad affacciarsi in agro di Monopoli, a sud di Bari, compromettendo ulteriormente l’olivicoltura locale già depressa dalla crisi di mercato. Negli ultimi anni si è manifestata, con alcuni focolai, anche nel Foggiano. Inoltre è da tempo endemica in vaste aree della Calabria, occupate da un’olivicoltura estensiva caratterizzata dai cosiddetti “boschi di olivi”. Fra queste due regioni la lebbra delle olive ha causato, nella campagna 2010-2011, danni stimati in un calo di resa delle olive del 37%, pari a una perdita di 53 milioni di €. Addirittura nelle province di Lecce e Brindisi, dove si è avuta un’incidenza media della malattia del 50% con picchi del 90%, è stato dichiarato lo stato di emergenza».
L’agente causale della malattia era in passato ascritto a Colletotrichum gloeosporioides, ma già negli anni ’50-’60, puntualizza Nigro, erano note sull’olivo popolazioni o razze geografiche del fungo.
«La successiva disponibilità di metodiche biochimiche e molecolari ha consentito di capire che agenti della lebbra delle olive sono il complesso del C. gloeosporioides, il complesso del Colletotrichum acutatum e il C. acutatum in senso stretto. Dei due agenti eziologici sicuramente attivi in Puglia C. gloeosporioides è più opportunistico, perché risponde meglio alle favorevoli condizioni climatiche, ed è presente con due popolazioni (Cg1 e Cg2) che sviluppano infezioni latenti. Invece C. acutatum è più stabile e presente con diverse popolazioni, indicate A1-A9, delle quali A4 sembrerebbe la più diffusa in Puglia. Queste due specie fungine hanno quindi un diverso livello di patogenicità, ma non è noto in quale percentuale siano presenti negli oliveti pugliesi. Risultati di recenti indagini indicano che nel Salento, come in alcune aree olivicole della Spagna e del Portogallo, esistono infezioni latenti, a partire dal periodo di fioritura-allegagione, senza che sulle piccole drupe si noti alcun sintomo. Tali infezioni poi esplodono all’invaiatura delle olive, come è accaduto nel 2014, e si sommano alle infezioni autunnali, causate dall’inoculo preesistente sulle piante».
La lebbra colpisce frutti, foglie e rametti. I sintomi sulle drupe, spiega Nigro, «si manifestano a partire dall’invaiatura, come tacche tondeggianti, depresse, di colore bruno-scuro e consistenza cuoiosa, che si espandono fino a occupare l’intero frutto. In condizioni di elevata umidità, sulla drupa si sviluppano numerose pustole rossastre che rappresentano le fruttificazioni del patogeno. Le drupe attaccate possono cadere precocemente o restare attaccate al rametto, dove mummificano (le “mummie”), e costituiscono l’inoculo per l’anno successivo. Dal peduncolo della drupa il fungo passa al rametto, quindi alle foglie e, l’anno successivo, ai fiori e alle drupe appena allegate, dove però l’infezione rimane latente fino all’invaiatura. Le foglie attaccate presentano macchie di colore giallo-cuoio e presto cadono al suolo, causando forti defogliazioni evidenti in primavera. L’olio ricavato da drupe malate presenta valori molto alti di acidità e colore rossastro. La lebbra è favorita da elevata umidità, temperature miti (15-25°C) e attacchi di mosca che diffondono i conidi».
La lotta contro la lebbra dell’olivo è ancora largamente basata solo sulla potatura e sull’uso di anticrittogamici rameici, osserva Nigro. «Per contrastare l’ulteriore diffusione della malattia occorre eliminare con potature i rametti infetti e le olive mummificate, che costituiscono una pericolosa fonte di inoculo, e arieggiare la chioma per favorire la ventilazione ed evitare ristagni di umidità. L’incidenza della malattia cresce con l’avanzare della maturazione: perciò nei casi di gravi epifizie è opportuno anticipare la raccolta per sfuggire ai successivi cicli di infezione. Il contenimento della densità di inoculo di Colletotrichum spp. sulle drupe è efficace con l’impiego di tebuconazolo+trifloxystrobin e pyraclostrobin, facendo seguire rame dall’invaiatura in poi. I trattamenti in prefioritura/postallegagione sono fondamentali per il contenimento delle infezioni latenti nelle annate con elevata densità di inoculo. Inoltre applicazioni di agenti di lotta biologica dall’invaiatura in poi sono efficaci per il controllo delle infezioni secondarie, che si manifestano tardivamente».
La verticilliosi
Altra malattia riemergente in Puglia è la verticilliosi dell’olivo (Verticillium dahliae), aggiunge Nigro. «Diffusa quasi dovunque a macchia di leopardo, ma in prevalenza nella fascia orientale della provincia di Taranto, la malattia, pur essendo presente in vecchi oliveti e in nuovi impianti specializzati, è su questi ultimi più pericolosa e facilmente diffusibile e di più difficile soluzione. La malattia causa il disseccamento di uno o più rami a legno e a frutto nella parte medio-alta della chioma, dei polloni, dell’estremità di branche con tutte le produzioni laterali. Questi sintomi che si manifestano all’inizio della primavera, crescono di intensità con l’aumento della temperatura ad aprile e maggio e si fermano con il caldo estivo; non si verificano altri disseccamenti in autunno».
Il patogeno agente della verticilliosi, spiega Nigro, «presenta elevata variabilità della virulenza, cioè patotipi non defoglianti, abbastanza miti, e patotipi defoglianti, più aggressivi dei primi. La verticilliosi “classica” è indotta da ceppi fungini non defoglianti. Ma in Puglia negli ultimi anni, con l’incremento di oliveti intensivi e superintensivi, si è registrata una crescente diffusione della malattia, proprio grazie alla presenza di patotipi defoglianti di origine spagnola».
Questi patotipi defoglianti sono stati identificati e caratterizzati per la prima volta nel 2014 proprio da Nigro. «Nella scorsa estate numerosi olivi di Arbequina, in impianti superintensivi tra Barletta e Andria, mostravano gravi disseccamenti e una defogliazione quasi totale. Successivi accertamenti diagnostici hanno rivelato la presenza di patotipi defoglianti di V. dahliae».
Considerate le caratteristiche di virulenza del patotipo defogliante e non essendo disponibili validi metodi di lotta, la prevenzione e la diagnosi tempestiva diventano indispensabili impedirne la diffusione, suggerisce Nigro. «In vivaio occorre sia rispettare scrupolosamente le norme di profilassi e le prescrizioni, così come definite negli specifici protocolli di produzione, sia eseguire periodicamente i previsti accertamenti diagnostici sulle fonti di approvvigionamento, sul terreno e sui substrati preparati in vivaio. Invece in campo occorre utilizzare piantine certificate Cac».